“Il provvedimento finirà quasi certamente davanti alla Corte Costituzionale”. Parla Giovanni Maria Flick ex presidente della Consulta

«È certamente plausibile che la Corte Costituzionale venga alla fine chiamata a pronunciarsi sul decreto che tassa gli extraprofitti delle banche. Va verificato il rispetto dei principi di straordinaria necessità e urgenza, di uguaglianza, di proporzionalità alla capacità contributiva, di ragionevolezza. Ciò detto, il decreto è mal formulato, mal scritto e peggio comunicato, e ha costretto il governo a una duplice marcia indietro sul quantum della tassa». Giovanni Maria Flick, classe 1940, piemontese di Ciriè, già ministro della Giustizia nel primo governo Prodi, poi per nove anni giudice della Corte Costituzionale e infine presidente della Consulta, ha seguito per tutta l’estate con la curiosità e l’esperienza del giurista la complicata questione della tassa sugli “extra-profitti” delle banche. «Vorrei ricordare che, prima di adire la Consulta, deve essere provocato un processo con un ricorso al giudice ordinario sull’applicazione del decreto se, quando e come sarà convertito in legge. Sarà il giudice a valutare se effettivamente investire la Corte Costituzionale della questione».

 

Insomma, il governo si è infilato in un vespaio…
«Al di là del merito, aggiungiamo che il presidente Sergio Mattarella si era espresso con chiarezza contro i provvedimenti omnibus e invece stavolta si è inzeppato il decreto del 7 agosto con misure contro i piromani, sulle licenze ai taxi, sulla disciplina delle intercettazioni e dei trojan, e così via fino quasi incidentalmente alla tassa sulle banche. Capisco lo sconcerto e anche l’irritazione degli interessati, anche se di decreti omnibus è piena la storia patria, come quando si inserì in un decreto per finanziare le Olimpiadi invernali di Torino l’equiparazione fra consumo di droghe pesanti e leggere, una questione che evidentemente avrebbe avuto bisogno di una ben maggiore discussione e approfondimento».

 

Quindi un eventuale ricorso alla Corte - quale sembra stiano preparando le banche che pure avevano avuto una reazione molto più “soft” all’inizio - avrebbe possibilità di successo?
«Non ho detto questo, naturalmente non posso prevedere cosa in quel caso deciderà la Corte. Posso solo dire, sulla base della mia esperienza, che prima di emanare un provvedimento del genere occorreva una consultazione ampia e ragionata, invece sembra quasi un atto d’impulso. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha accentuato la tensione confermando nell’intervista di metà estate che l’iniziativa era sua e soltanto sua, al punto che non aveva informato neppure il vice premier Antonio Tajani. Un uomo solo al comando - o una donna - non è mai una buona notizia per la democrazia».

 

Quindi Tajani protesta a buon titolo, non solo perché - come si insinua - verrebbe colpita Mediolanum, la banca di Mediaset?
«Perfino Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, era stato tenuto all’oscuro per “ragioni di tempo”, tanto che non si è nemmeno presentato alla conferenza stampa di presentazione del decreto. Scusi, con i tassisti o i balneari sono anni che si discute, perché le banche dovrebbero accettare senza batter ciglio una misura del genere?».

 

Ma le soluzioni proposte nel mese di agosto?
«L’unico testo nero su bianco è il decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. L’idea che è emersa di trasformare la tassa in un credito forzoso introduce ulteriore confusione, perché credito e tasse hanno caratteri molto diversi. Confonderli aumenta il tasso di ambiguità. Ci piaccia o no la politica può permettersi incoerenze che la finanza non ha».

 

Riaffiora un’antica questione: le banche sono un servizio pubblico o un’impresa privata?
«Su questo ho un’esperienza personale. Prima ancora di diventare ministro e poi giudice costituzionale, fui chiamato come avvocato di una grande banca a intervenire in una controversia che ruotava proprio intorno alla natura delle banche e alla possibile incriminazione per peculato dei dipendenti infedeli. Riuscii a dimostrare che le banche sono imprese, certo usano del denaro ma “del pubblico” non “pubblico”, quindi non sono “servizi pubblici”. I depositanti sono sempre liberi di usare come vogliono i loro soldi. E per chi ha commesso irregolarità bisogna andare a cercare altri reati nel codice penale, che non mancano. Persino le casse di risparmio sono state tutte privatizzate, secondo la linea europea».

 

Tornando agli extra-profitti, tassarli pur con ragionevolezza è così ingiusto?
«Probabilmente no. Il problema è sempre come identificali e calcolarli. Peraltro non è impossibile: oggi con gli algoritmi si fa tutto, possibile che non si trovi un algoritmo ad hoc? È una questione di opportunità per tutti: per le banche che non dovevano tendere troppo la corda, per il governo che non doveva intervenire a gamba tesa. Sembra che sia in arrivo anche l’ennesima reprimenda della Bce per l’instabilità che questo decreto ha creato: soprattutto perché pare che il governo intenda destinare alla fiscalità generale i proventi della tassa, mentre una misura del genere in altri Paesi è destinata correttamente a qualche fondo di stabilità del sistema bancario».

 

Potrebbero esserci altri problemi con Bruxelles o Francoforte?
«Al momento non mi sembra di intravvedere altri profili di illegittimità a livello di sistema europeo. Né mi sembra che la Commissione Europea si sia finora pronunciata. I problemi semmai potrebbero essere interni: vedo il rischio che in un modo o nell’altro le banche possano cercare di rivalersi del costo scaricandolo sui clienti».

 

La ragionevolezza è un richiamo costituzionale, insomma. Ma quali articoli della Carta entrano in discussione nella vicenda delle tasse sugli “extra-profitti”?
«Diversi. L’articolo 2 richiama ai doveri inderogabili per tutti “di solidarietà politica, economica e sociale”. L’articolo 55 dice che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e più oltre che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. L’articolo 77 limita la possibilità di emanare decreti ai “casi straordinari di necessità e di urgenza”. Come vede, su ognuno si può argomentare ed è quello che farà la Consulta».

 

Ma non c’è una questione generale di uguaglianza? Le banche dicono: perché noi sì e, mettiamo, le società di gestione del risparmio no?
«È una questione ancora più delicata, che investe la natura stessa del servizio bancario. Si può prendere la discussione da tanti lati. Senza dimenticare che le banche qualche errore l’hanno fatto, lasciando proseguire per mesi una situazione di effettiva e abnorme disparità fra tassi attivi e passivi mentre montava la protesta popolare. Potevano a loro volta comunicare con maggior chiarezza le loro ragioni, intervenire per esempio con rigore a favore di chi ha un mutuo a tasso variabile, e non dare sempre e solo tutte le colpe alla Bce e all’inflazione. D’altronde il rimprovero di Francoforte, se effettivamente ci sarà, rischierebbe di apparire una replica alle accuse della presidente del Consiglio sugli aumenti dei tassi».

 

Del resto, l’inflazione, e con essa la speculazione, la subiscono tutti. Perché allora non colpire i produttori di pasta, o l’ortolano che ha raddoppiato i prezzi chiaramente andando al di là del lecito?
«Beh, non evochiamo situazioni improbabili, che provocherebbero tumulti di piazza. L’inflazione è la tassa dei poveri, purtroppo, e tutti i superprofitti sono iniqui, e le speculazioni esecrabili. Ma colpirli è complesso e si rischia sempre di uscire dal perimetro della finanza e del diritto per approdare a quello della morale se proviamo a definire genericamente un profitto ingiusto».

 

La Consulta peraltro è stata già investita della questione della “Robin tax” di Giulio Tremonti, che era qualcosa di simile. Come finì?
«La Corte “assolse” nel 2015 la tassa in sé, che come ricorderete consisteva in un aumento dell’aliquota Ires a carico delle imprese dei settori energetici che avessero conseguito fatturati e redditi superiori a determinate soglie. Il problema fu che, istituita in seguito a un boom del petrolio del 2008, poi la supertassa stava diventando permanente. Su quest’ultimo punto la Corte emise un parere negativo e fermò tutto. Peraltro, in queste settimane la Consulta sta discutendo ancora un altro ricorso, promosso proprio dalle aziende energetiche sempre per gli extraprofitti presi di mira dai governi Conte e Draghi. Anche in questo caso, la questione è delicata e complessa: per le banche rischia di esserlo ancora di più».