Da giovane pittore imbucato a Venezia, agli esordi da regista, fino al premio al Leone d'Argento al Festival in cui ha portato un film che parla di migranti. Ma ribaltando punto di vista. E luoghi comuni. Dialogo a tutto campo con l'artista

Tre anni, due mesi in Senegal e la determinazione a fare un film il più possibile «partecipato e contaminato», per non rischiare di appropriarsi di un’altra cultura. Ci è voluto tutto questo a Matteo Garrone per firmare “Io Capitano”, odissea e viaggio di formazione di due ragazzi senegalesi con il sogno di arrivare in Europa per migliorare le proprie esistenze. Presentato in concorso alla 80ma Mostra del Cinema di Venezia e in questi giorni nelle sale italiane, si colloca nella filmografia di Garrone in una posizione ben precisa: «A metà tra Gomorra e Pinocchio».

 

Qual era l’intenzione alla base del film?
«Volevo raccontare un controcampo. Siamo abituati a uno sguardo dall’Europa verso l’Africa, con le barche che arrivano, a volte salvate e a volte no, e la conta dei morti. Io volevo provare a raccontare tutto quello che c’è prima e che noi non conosciamo. E volevo farlo direttamente dalla loro angolazione e dal loro punto di vista, orientando quindi la cinepresa dall’Africa verso l’Europa».

 

Quanto lavoro di ricerca ci è voluto?
«Anni, di ricerca ma anche di condivisione. Quando racconto una cultura che non è la mia preferisco girare un film assieme alle persone che racconto».

 

Lo fece già con Gomorra.
«Sì, cercavo di mimetizzarmi facendo lavorare anche persone del posto. Per questo film è stato fondamentale avere, sia in fase di sceneggiatura sia durante le riprese, l’aiuto e la testimonianza di ragazzi africani che avevano davvero compiuto quel viaggio. Io sono solo un tramite, ho messo a disposizione le mie competenze per dare voce a chi non ce l’ha, ai ragazzi che hanno attraversato il deserto, i campi di detenzione in Libia, il mare. Era fondamentale che nel film ogni fotogramma fosse autentico, senza di loro sarebbe stato impossibile».

 

 

Come ha scelto i due protagonisti Seydou Sarr e Moustapha Fall?
«Ho fatto un casting in Senegal, nella periferia di Dakar. Uno faceva teatro, ha fatto il provino e mi ha colpito, l’altro ha la mamma che era un’attrice amatoriale e gli ha trasmesso la passione».

 

Come comunicavate?
«Con l’interprete, loro parlano wolof. Capiscono un po’ il francese, il che ci ha aiutato quando raccontavo loro giorno per giorno come sarebbe andata la storia. Non hanno mai letto la sceneggiatura, li lasciavo scoprire ogni giorno quello che sarebbe successo nella loro avventura. Capivano il sentimento della scena del giorno, trovando parole loro o appoggiandosi alla sceneggiatura». 

 

Che idea si è fatto di questo viaggio dall’Africa all’Europa?
«È un pezzo di storia contemporanea. Il dibattito politico di destra o di sinistra non mi interessa, credo sia sempre giusto salvare vite in mare perché è un principio fondamentale universale. Mentre stiamo parlando c’è qualcuno che sta in mare, o attraversa il deserto in Libia. Per rispetto loro, e di chi non ce l’ha fatta, trovavo necessario essere estremamente attento alla messa in scena, senza cadere in nessun tipo di autocompiacimento».

 

Però ha voluto inserire suggestive scene oniriche.
«Servono per dare forza all’anima del protagonista, ai suoi sentimenti più profondi, ai suoi sensi di colpa verso la madre a cui non ha detto del viaggio, o verso la donna che non riesce a salvare nel deserto. Non volevo usare un linguaggio documentaristico, poi quelle scene non tolgono nulla alla drammaticità del viaggio, semmai la rafforzano».

 

Perché partire dalla storia di due ragazzi che rincorrono un sogno e non da tutti coloro che fuggono da guerre, torture e partono per necessità?
«Dai racconti dei ragazzi conosciuti in Senegal e in Marocco che hanno vissuto l’esperienza del viaggio mi sono accorto che è vero che c’è chi fugge da guerre e disperazione, ma è anche vero che questo tipo di migrazione si svolge più dentro l’Africa. Se ne parla meno, ma l’Africa conta 54 Stati, quando sei disperato e non hai nulla è più facile raggiungere un Paese vicino. Poi il 70% della popolazione in Africa è giovane, a differenza nostra, e i giovani hanno sogni, desideri, voglia di conoscere il mondo».

 

Un mondo che vedono attraverso i social.
«La globalizzazione lì è arrivata forte come da noi, hanno una finestra costante sull’Occidente ed è normale e umano per loro desiderare di partire per un futuro migliore, per poter realizzare i loro sogni e aiutare le famiglie. Non sanno spiegarsi perché i loro coetanei possono venire in vacanza in Africa serenamente in aereo mentre loro devono rischiare la vita per raggiungere l’Europa. Un quesito legittimo che tocca un tema etico di giustizia a cui è difficile dare una risposta».

 

I centri di detenzione, la mafia libica, le scene di tortura. Come si è regolato per girarle?
«Ci sono diversi video che raccontano le morti nelle prigioni e nei deserti in Libia, quindi c’è stata tanta documentazione e in più con me c’erano i ragazzi che avevano davvero subito delle torture in Libia e mi aiutavano a ricostruire quel mondo, quell’orrore, con attenzione anche a dettagli e particolari che fanno la differenza».

 

Ripercorrere certe esperienze non deve essere stato semplice per loro.
«Rivivevano i fantasmi del passato con reazioni inaspettate anche per me: mi ha colpito profondamente l’enorme generosità di tutti. Anche durante le riprese, nel partecipare a scene pericolose con la jeep che saltava letteralmente nel deserto. Sentivo quanto per loro fosse importante testimoniare attraverso il film quella che era stata la loro odissea, che non sempre viene creduta».

 

«Ci volete far morire in mezzo al mare», grida il protagonista, mentre la guardia costiera italiana si rifiuta di soccorrerli.
«La guardia costiera non interviene perché le acque sono di competenza libica. L’indifferenza non è solo dell’Occidente, i libici sono i primi a specularci: tolgono a chi vuole partire tutto quello che hanno, come mostra il film, senza curarsi minimamente della loro sorte».

 

Affidano il barcone a un quindicenne inesperto, nel film.
«Racconto la storia vera in questo caso di Fofanà, con cui ho parlato a lungo, oggi fa il magazziniere in Belgio. Purtroppo quando è riuscito ad arrivare in Italia poi si è fatto sei mesi di carcere, oggi temo sconterebbe molto di più. Nel Cpt di Catania ha conosciuto la sua attuale compagna, oggi hanno due figli».

 

Non è venuto alla Mostra del Cinema.
«Purtroppo non ha ancora il permesso di soggiorno, essendo un bravissimo ragazzo dopo tutto quello che ha passato ha preferito non correre rischi e non venire».

 

Perché ha scelto di non raccontare lo sbarco, i Centri di permanenza temporanea, il rapporto con gli italiani?
«Perché quello è un altro capitolo, io volevo raccontare solo il viaggio, gli sbarchi a Lampedusa visivamente sono raccontati molto più del viaggio in sé».

 

Ritiene che il suo sia un cinema politico?
«Nella misura in cui prova a mostrare le cose da un’altra angolazione. Resto dell’idea che “come” racconti una storia sia la cosa più importante. Nel raccontare le torture il Libia o i morti nel deserto non contano le informazioni - do per scontato che siano cose che il pubblico sappia già - ma come vengono raccontati quei mondi e quei personaggi, come si dà vita alla loro storia. Io ho cercato di fare un film che fosse insieme un viaggio di formazione, una storia epica, un’odissea contemporanea e un film accessibile ai giovani. Mi piacerebbe portarlo nelle scuole italiane, ma spero anche che possa aiutare a far vedere ai giovani africani i pericoli concreti a cui vanno incontro. Mi auguro sia anche utile qui in Occidente per sensibilizzare i giovani, e i meno giovani, e far capire più a fondo quanti privilegi abbiamo noi stando “di qua”».

 

Felice di essere stato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, immagino.
«Molto, era la mia prima volta in concorso, è stata una grande opportunità per il film. Sono legato alla Mostra da quando da giovane facevo il pittore, con un gruppo di amici venivamo a vedere i film, era fantastico. La prima volta, avrò avuto vent’anni, venni per accompagnare una ragazza e del festival non mi importava niente, ricordo che mi indicò da lontano Nanni Moretti. Un’altra volta entrai furtivamente in Sala Grande con la delegazione di Brian de Palma, mi intrufolai e feci un’entrata trionfale con gli americani».

 

Poi ci è tornato da regista, con i suoi primi film.
«Bei ricordi anche quelli. Dormivo tre giorni all’Hotel Excelsior e tre giorni in un furgoncino nella pineta».