Formazioni personali, classe dirigente inadeguata, conflitti d'interesse: le forze che siedono in Parlamento o nei banchi del governo (anche di quelli locali) non sono mai state così scollate dalla società. E la sfiducia verso di loro è una cattiva notizia per la democrazia

Nulla di illegale, ovvio. Ma che il capo di un partito si faccia la propria holding personale è un po’ curioso. Il nome è Ma.Re. holding e il suo proprietario, si può dedurre dalla sigla, è Matteo Renzi: fondatore e capo assoluto di Italia Viva. Ha costituito la società nell’aprile 2021, qualche settimana dopo l’ingresso del suo partito nel governo Draghi. Una piccola quota l’aveva anche il figlio Francesco, promessa del calcio. Che poi l’ha ridata a papà. E qualche mese fa la holding renziana ha filiato una seconda società: Ma.Re. adv. Consulenze aziendali, strategie imprenditoriali, pubbliche relazioni, marketing… Una prateria sterminata, per un ex premier con profumate relazioni che si spingono fino ai ricchi forzieri arabi.

 

Ma non siamo a conoscenza del fatto che qualcuno dentro Italia Viva abbia alzato un sopracciglio. Né che l’abbia fatto un collega di partito del potente sottosegretario alla Giustizia meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove. Tre mesi dopo essere sbarcato al governo lui ha costituito una società di avvocati con la sorella Francesca, sindaca anch’ella meloniana di Rosazza, e la penalista biellese Erica Vasta. Diciamo subito che nulla impedisce a un sottosegretario di aprire una società. Ma a che serve, se per legge l’avvocato sottosegretario potrà esercitare di nuovo solo un anno dopo aver lasciato il governo?

 

Davanti a questi fatti, non isolati a giudicare dal coacervo di interessi personali che alberga nei partiti, verrebbe da chiedersi: cosa è diventata oggi la politica? Che non se la passi troppo bene, e il solco fra i partiti e la realtà sia sempre più profondo, è un fatto. Parlano chiaro i dati. Il 25 settembre 2022 hanno votato 30,4 milioni di persone, come nel 1958. Peccato che allora gli aventi diritto al voto fossero 32,4 milioni, contro i 50,8 di oggi. In un Paese nel quale fino al 1979 votava alle politiche oltre il 90 per cento degli elettori, e fino al 2008 più dell’80 per cento, siamo scesi di botto al 63,9. In quindici anni sono andati perduti 8 milioni e mezzo di voti. Di questi, ben 5 milioni sono spariti domenica 25 settembre 2022.

 

Al Sud gli elettori si sono praticamente dimezzati, da 16,2 a meno di 8,5 milioni. In Campania ha votato il 53,2 per cento. A Napoli Fuorigrotta l’affluenza è scesa dal 62 al 49 per cento. Gli elettori calabresi non hanno raggiunto il 51 per cento. A Crotone si sono fermati al 45,9. A Reggio Calabria, invece, al 48,9. Ma con situazioni da brivido in alcuni centri nelle aree ritenute più esposte al rischio criminalità. Ad Africo ha votato il 32,1 per cento. A Platì il 31,3. A San Luca il 21,5. La politica, che già serve a poco, lì evidentemente non serve a nulla.

 

La cosa dovrebbe indurre i partiti a una profonda riflessione anche sulla legge elettorale. Invece, zero. L’Italia è l’unico Paese democratico dove le regole elettorali cambiano in continuazione, spesso a seconda delle convenienze di chi sta al potere. I risultati di tale follia sono evidenti. Giorgia Meloni è diventata premier con una maggioranza di quasi il 60 per cento dei seggi parlamentari grazie ai 7,5 milioni di voti di Fratelli d’Italia: vale a dire un settimo dell’intero corpo elettorale. O meno di un quarto, considerando i voti dell’intera coalizione. Si dirà che in molte democrazie avanzate la partecipazione al voto è bassa. Vero. Ma a parte il fatto che non sempre è così (alle ultime presidenziali americane ha votato il 66,7 per cento, più che alle ultime politiche italiane), la breve storia della nostra Repubblica è diversa.

 

E dovrebbe preoccupare ancora di più la cosa che il crollo non riguardi solo le elezioni generali, ma anche le amministrative: dove la politica sarebbe in teoria più vicina ai cittadini. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana è stato eletto con 1,7 milioni di voti su 8 milioni di elettori: 22,1 per cento. Quello della Regione Lazio Francesco Rocca, con 936 mila voti su 4,8 milioni: 19,5 per cento. Roberto Gualtieri è diventato sindaco di Roma con i voti di 565 mila elettori su oltre 2,3 milioni: 24 per cento.

 

Se la rappresentanza scende a questi livelli, ne risente la democrazia stessa. Ebbene, a un problema così gigantesco i partiti e i loro leader reagiscono facendo spallucce. Pur sapendo esattamente come è stato rotto il giocattolo. È cominciata con la trasformazione dei partiti da strutture collettive in apparati strettamente personali. Rivoluzione certamente riconducibile a Silvio Berlusconi, ma con avvisaglie anche nella cosiddetta prima repubblica. Il resto l’hanno fatto leggi elettorali scriteriate che hanno consegnato nelle mani del capo il potere di selezionare la classe dirigente del partito. Mai sulla base delle competenze: bensì per amicizia, relazioni, parentela e fedeltà. La ciliegina sulla torta, infine, è stata l’abolizione demagogica del finanziamento pubblico, anziché una sua necessaria e profonda riforma. Come aveva proposto, per esempio, il politologo Piero Ignazi. In compenso, non si è mai fatta nemmeno la legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, e i partiti sono rimasti in un comodo limbo.

 

Le conseguenze sono devastanti. L’assenza di competizione e meritocrazia ha avuto riflessi penosi sulla qualità degli eletti, come avevano già segnalato Andrea Mattozzo e Antonio Merlo nel saggio sulla “Mediocrazia”. E una delle ragioni per cui il Parlamento è ridotto a semplice ufficio di ratifica dei decreti governativi è questa. Il confronto con l’inizio dell’epoca repubblicana è avvilente. In un’Italia nella quale l’analfabetismo assoluto toccava il 13 per cento e i laureati erano decisamente meno dell’un per cento, il 91,4 per cento dei deputati aveva la laurea. Oggi, che sia pure ai livelli più bassi d’Europa, ma gli italiani laureati sono il 20 per cento, i deputati con la laurea (vera) in tasca si fermano appena al di sotto del 70 per cento. Neppure Giorgia Meloni ha un titolo accademico, prima donna presidente del Consiglio nonché secondo capo del governo nel dopoguerra senza laurea dopo Massimo D’Alema.

 

Per non parlare dei parenti. Questo Parlamento, nel quale il partito di maggioranza relativa è in mano alla sorella della premier, compagna di un ministro, ne è letteralmente invaso. Se ne possono contare più di una cinquantina; e più di 70, calcolando anche i pedigree parentali meno recenti. Un sistema sempre più chiuso in sé stesso anche ai vertici del potere. Il primo governo guidato da una donna si è presentato come una novità assoluta, ma è pura fantasia. Ben 11 fra ministri e sottosegretari, compresa la stessa premier, erano già nell’ultimo fallimentare governo di centrodestra targato Berlusconi. E se si contano anche le altre esperienze, addirittura 25 persone sui 64 componenti del gabinetto Meloni avevano già frequentato qualche governo. Compresi quelli di Conte e Draghi.

 

Difficile stupirsi se in questo panorama il finanziamento dei partiti non sia affatto popolare. Su 41 milioni e rotti di contribuenti quelli disposti a dare il 2 per mille a un partito non sono che 1,3 milioni: il 3,3 per cento. Misera la platea dei finanziatori, misero il gettito. In tutto, poco più di 18 milioni. Oltre un terzo dei quali va al solo Partito Democratico. Come campano, allora? Con i soldi dei parlamentari, che spesso versano nelle casse dei partiti una fetta del plafond loro spettante per retribuire gli assistenti. E con pochi assistenti e mal pagati si può immaginare anche la qualità del lavoro parlamentare.

 

I finanziamenti dei cittadini e delle imprese private sono quasi inesistenti. Nel 2022 il Pd ha avuto contributi da “persone giuridiche” per 125 mila euro, contro 3,8 milioni da “persone fisiche”, cioè quasi tutti parlamentari. Italia Viva ha incassato invece dalle società 675 mila euro, però contro 1,6 milioni versati quasi tutti dai parlamentari. Come del resto anche la Lega. E Fratelli d’Italia, cui non è stata negata una briciolina di 26 mila euro dal Twiga di Flavio Briatore e Daniela Santanchè. C’è poi chi si aiuta con i gadget. Il partito di Giorgia Meloni tira su 300 mila euro l’anno. Li vende la società Italica solution, che però non è del partito. Fa capo a Martin Avaro, ex “federale” di Forza Nuova a Roma Est.

 

Anziché ai partiti, le imprese preferiscono versare alle fondazioni politiche, casseforti personali dei leader dei partiti personali. C’è più riservatezza. Openpolis ne ha censite 121, di cui oltre metà nate a servizio di una corrente di partito o di un singolo politico: appena 19 pubblicano un bilancio accessibile su Internet. Soprattutto, i potenziali finanziatori vanno direttamente al bersaglio. Altro che lobby. E pensare che nella scorsa legislatura la Camera ha approvato una legge per regolamentare finalmente l’attività dei lobbisti, proposta da due deputati Pd e M5S. Ma prima che il Senato la ratificasse la legislatura è evaporata. Grazie ai grillini: che hanno fatto così svanire anche la loro legge. E ora la Camera ha avviato sulle lobby una nuova indagine conoscitiva!

 

Ecco dove siamo arrivati.