L'ultimo report dell'Adi mette in mostra ancora una volta le pessime condizioni a cui è sottoposto chi fa ricerca. A stare peggio le donne, chi lavora negli atenei del Sud e chi ha intrapreso percorsi umanistici. E anche sul fronte della salute mentale emergono elementi preoccupanti

La metà dei dottorandi italiani vive stati di ansia, depressione e stress che potrebbero essere rilevanti a livello clinico: il 27 per cento ha punteggi considerati “gravi” o “molto gravi” per quanto riguarda l’ansia, il 36 per cento per la depressione, il 37 per cento a proposito di stress. Circa uno su 5 presenta punteggi gravi in tutte le categorie. Numeri peggiori rispetto alla media della popolazione italiana. Ma anche rispetto a quelli dei dottorandi della maggior parte degli altri Paesi Ue.

 

È questo ciò che emerge dalla XI indagine Adi, Associazioni dottorandi e dottori di ricerca in Italia, “Psicopatologia del dottorato di ricerca”. Che quest’anno dedica per la prima volta un focus anche alla salute mentale di chi intraprende percorsi di ricerca all’interno degli atenei del nostro Paese con l’obiettivo di evidenziare come la tutela del benessere psicologico non possa dipendere da interventi spot, emergenziali come durante il periodo del Covid-19 ad esempio, o rivolti al singolo.

 

Sono, invece, necessarie trasformazioni strutturali del lavoro di ricerca. Un settore quasi completamente assente dal dibattito pubblico, politico e istituzionale. Sottofinanziato soprattutto a causa degli scarsi fondi che i governi dedicano all’istruzione da anni e considerato più “formazione” che “professione”, con condizioni precarie, incertezza e pochissima stabilità per chi ne fa parte. «Mentre una laurea magistrale dà accesso a un salario netto medio tra chi lavora a tempo pieno di 1.499 euro a un anno dal conseguimento del titolo e di 1.599 dopo tre anni, l’importo della borsa di dottorato non segue nemmeno l’inflazione». La denuncia di Adi riguarda infatti anche la borsa minima fissata dal Mur - quella che percepiscono la maggior parte dei dottorandi - più bassa di quasi il 25 per cento rispetto al guadagno di chi ha deciso di lavorare altrove. Secondo l'associazione, l’entrata mensile media è di 1.200 euro.

 

Dallo studio, che ha coinvolto circa 7 mila dottorandi, emerge come la maggior parte di chi è in affitto condivide l’appartamento perché non può permettersene uno da solo. Chi lavora nel campo della ricerca universitaria solitamente rinvia la stabilità economica e personale a dopo i 35 anni: per i dottorandi è difficile anche riuscire a mettere 100 euro da parte ogni mese e per più della metà di loro sarebbe impossibile affrontare una spesa imprevista di 400 euro senza chiedere l’aiuto dei familiari.

 

E se il quadro è scoraggiante per tutti, a stare peggio sono le dottorande, chi ha intrapreso percorsi di ricerca al Sud e chi si dedica al sapere umanistico: «Il gender gap rispetto alle possibilità di sostenere spese impreviste anche modeste, o di riuscire a risparmiare ogni mese, è di circa il 10 per cento: le dottorande che non riuscirebbero a sostenere un imprevisto sono il 56 per cento, rispetto al 45 degli uomini. Una differenza simile si può notare pure tra le discipline scientifiche da una parte e quelle umanistiche dall’altra», si legge nella ricerca. Le stesse differenze si notano quando si considera la salute mentale: il gender gap è tra il 10 e il 15 per cento rispetto ad ansia, depressione e stress. La differenza tra Nord e Sud è di circa il 5 per cento.

 

«Quanto emerge dalla XI indagine dell’Adi è un quadro molto preoccupante che purtroppo non stupisce. Le strutturali condizioni di difficoltà e precarietà che accompagnano il ruolo dei dottorandi in Italia non sono nuove. Eppure continuano a peggiorare: borse troppo basse, incapaci di garantire una vera sostenibilità economica, carichi di lavoro esagerati e un imbuto lavorativo che nega prospettive certe al grande lavoro di ricerca che si compie. Tutto questo produce livelli di stress e depressione allarmanti», commenta Rachele Scarpa del Pd durante la conferenza stampa di presentazione della ricerca.

 

«In aggiunta, l’incertezza totale verso il futuro risulta un ulteriore fattore di stress e strumento di ricatto e autosfruttamento. Ciò che bisogna dire, e che d’altronde tutti sanno, è che buona parte del lavoro di ricerca è basato sullo sfruttamento: queste dinamiche sono il principale motore di un sistema accademico al collasso sotto il peso del mancato ricambio e del sottofinanziamento cronico, oltre a innestarsi su relazioni di lavoro di tipo baronale già endemiche all’università italiana», si legge alla fine della ricerca.