Un anno fa citava Berlinguer, ora non vuole nemmeno dirsi di sinistra. E fatica ad allearsi col Pd. Ecco la centesima fase del pentastellato. Senza parole d’ordine per scaldare il popolo, come fu per il reddito di cittadinanza. Ma con un capolista ingombrante: Giuseppe Tridico

«Alcune battaglie di Berlinguer, noi stiamo dimostrando coi fatti di portarle avanti». Era soltanto un anno fa e Giuseppe Conte, con la sciarpetta blu attorno al collo e la faccia da impunito, inaugurando una sede dei Cinque Stelle a Ostia si spinse a esplicitare il paragone che in quell’inverno tra il 2022 e il 2023 suggeriva implicitamente, ai danni del Pd, un po’ citando la questione morale a proposito del Qatargate, un po’ ipotizzando di candidare la figlia Bianca alla regione Lazio. Qualcuno lo ricorda? Nel frattempo la berlinguerite gli è completamente passata. Nessuno l’ha visto, per esempio, tra i quasi quarantamila che in meno di due mesi hanno affollato la mostra sul leader comunista al Mattatoio di Testaccio, a Roma, organizzata dalla Fondazione Enrico Berlinguer. È tutto dire: ci è andato persino Carlo Calenda, con la madre. Ma Giuseppe Conte no.

 

Il fatto è che il leader del M5S ha cambiato di nuovo fase. Dopo che l’arrivo di Elly Schlein alla guida del Pd ha rianimato l’area nella quale aveva cominciato ad aggirarsi, non vuol essere più definito di sinistra. Neanche di centrosinistra. Quell’abito gli sta «stretto». Il suo aggettivo del momento è: progressista. Salirebbe alla memoria la gioiosa macchina da guerra (appunto “I progressisti”) con la quale Achille Occhetto perse le elezioni nel 1994, ma non si tratta alla fine neanche di quello. È, invece, una nuova vita della definizione di stampo bettiniano che gli dedicò Nicola Zingaretti, in una intervista al Corriere della Sera del dicembre 2019: «Punto fortissimo di riferimento», disse l’allora segretario dem, «di tutte le forze progressiste». Oggi dunque Conte vuol incarnare ancora quel vestito. L’ha detto benissimo anche durante il discorso alla riunione regionale dei Cinque Stelle emiliano-romagnoli a Faenza, il 2 febbraio: «Tutti dicono sinistra, sinistra. No. Noi siamo una forza progressista. Questa formula dà la libertà di poterci muovere nel pieno rispetto dei nostri valori, senza che nessuno ci imponga un abito che ci sta stretto». Basta che non sia centrosinistra.

 

Poco da stupirsi. Quasi nulla è rimasto a Giuseppe Conte del M5S che fu. È diversa la sede, la struttura, lo statuto. È un’altra la truppa, quella vecchia spazzata via quasi interamente dal limite dei due mandati (o dalla scissione di Di Maio), quella nuova tutta fedele all’ex premier. Ci sono comitati politici, gruppi territoriali, coordinatori che, dice, «devono essere persone di fiducia del presidente». L’«uno vale uno», principio cardine del Movimento grillino e casaleggiano, è stato stravolto: servono piuttosto persone «competenti, capaci», «non puoi governare una comunità solo a colpi di slogan», spiega l’uomo che fu scelto in una notte per governare il Paese. Ergo, «dobbiamo studiare, parlare con esperti, approfondire», frequentare la scuola di formazione, «tassello fondamentale» del M5S contiano (tra l'altro otto lezioni di politica in nove mesi, l'ultima per parlare di “Patria e politica”).

 

Elly Schlein

 

Nel M5S tutto nuovo, però, non ci sono nuove parole d’ordine, grandi progetti verso cui andare. A parte il salario minimo, che ormai deve condividere con Schlein e quindi estrae malvolentieri, Conte cita spesso i traguardi-simbolo del M5S, raggiunti o impostati già con il governo gialloverde: il reddito di cittadinanza, la legge “Spazza-corrotti”, il decreto "Dignità". Al presente ha da offrire una lista di priorità ben diversa: «legge sul conflitto di interessi e regolamentazione delle lobby», agitate a latere della «questione morale» e della lotta contro le leggi bavaglio. Obiettivi elitari, un programma più da Partito Repubblicano di Ugo La Malfa che da partitone di massa. Questioni non esattamente capaci di scaldare il cuore del popolo, specie dell’elettorato del Sud conquistato col reddito di cittadinanza, e che costituisce il pilastro dei Cinque Stelle al 16 per cento, come si è visto nelle ultime elezioni.

 

Con questi strumenti Conte si avvia alla campagna per le Europee. Tra una innegabile nostalgia di Palazzo Chigi, testimoniata dall’indulgenza di pensarsi e dall’impudenza di proporsi continuamente come capo di governo. E una solida tendenza, per dirla con Romano Prodi, a non decidere da che parte stare. Due elementi splendidamente riassunti nell’equivalenza tra Joe Biden e Donald Trump, pronunciata durante la prima ospitata da Fabio Fazio: « L’uno o l’altro, se mai mi trovassi a una nuova responsabilità di governo, cercherei di tutelare l’Italia». Molto simile, questo Conte, a quello che nel 2022 da Lilli Gruber diceva di stare «né con Macron né con Le Pen» e nel 2018 chiariva che «fare un discrimine tra destra e sinistra non ha molto rilievo». Uno insomma che punta più che altro al potere e cerca di alzare le proprie quotazioni come può. Lineare, alla fine.

 

In questa chiave ecco il finora mancato accordo sulle elezioni regionali in Piemonte e Basilicata (nel primo resiste perché lo dà per perso, nella seconda perché, dati i rapporti di forza, vincere non gli farebbe comodo) e la competizione spasmodica con il Pd di Schlein. Mettere in forse l’alleanza, criticare le mosse dem serve a conquistare gli indecisi, ad alzare le percentuali e la posta. Certo, poi la linea crea dei paradossi. Uno dei più recenti è quello dei cartelli «mai alleanza con il Pd» che Conte ha letto ad alta voce perché erano esposti nell’adunata grillina a Faenza. Una città dove il centrosinistra c’è, governano i dem, in alleanza fra l’altro proprio con i Cinque Stelle (nel 2020 presero il 4,6 per cento). Nella regione-culla del grillismo, dove il Movimento è stato una costola della sinistra, abbastanza organica, come testimoniano in Regione i buoni rapporti col Pd dell’unica consigliera, Silvia Piccinini, e al Comune di Bologna il caso di Max Bugani, ex plenipotenziario grillino oggi in giunta con Matteo Lepore.

 

Il contesto non aiuta. E il casting nemmeno. La ricerca di volti noti da lanciare per le Europee, in luogo dei perfetti sconosciuti di una volta, finora è andata abbastanza male. Dopo una serie di no alla candidatura, da Alessandro Di Battista che a quanto pare preferisce puntare sul suo “Schierarsi” fino allo sfumare dell’ipotesi Marco Tarquinio lungamente corteggiato (l’ex direttore di Avvenire sarebbe più incline a optare per il Pd), Conte ha incassato solo il nome di Pasquale Tridico, che sarà capolista al Sud come anticipato da L’Espresso. Problema: il padre del Reddito di Cittadinanza, nell’intervista a Repubblica sulla sua discesa in campo, ha subito smentito l’impostazione del leader: tanto Conte rifiuta l’idea dell’alleanza, quanto Tridico punta sul fronte comune con il Pd come ipotesi strategica, oltre le differenze di programma. Come a volersi accreditare come un possibile mediatore. Di più: l’ex presidente dell’Inps ricorda quanto fu «un enorme fallimento» il modello di intesa a contratto che consentì la nascita del governo gialloverde e l’ascesa di Conte. Si propone insomma con uno sguardo sul futuro che l’ex premier, come si è visto nelle sue uscite, non riesce ad avere.

 

Va a finire che l’unico abito nel quale Conte si sente davvero a suo agio è quello più antico, di avvocato: chi ci ha parlato in queste settimane, dice che il suo interesse più vivo si è aggrumato tipo ossessione attorno al Giurì d’onore, che il leader M5S ha chiamato in causa dopo le accuse di Giorgia Meloni sul suo ruolo nell’approvazione del Mes. Quella del Giurì è una commissione d’inchiesta parlamentare che non ha alcun potere, se non quello di riferire i suoi risultati alle Camere: ma l’avvocato ha finalmente trovato in Parlamento un Tribunale. Così, ha trattato la questione come una causa. Ha depositato una prima memoria di cento pagine, poi un’altra. Pare abbia presentato anche una lista di testimoni. I colleghi lo raccontano con scorato divertimento. Ognuno si consola come può, peccato anche questa distrazione sia ormai terminata.