Nuove coppie

Benvenuti nell'era del "Melonte", la strana intesa tra Giorgia Meloni e Giuseppe Conte

di Susanna Turco   2 ottobre 2023

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L'assist sul caso Santanché, le convergenze anti-Pd, le nomine nelle aziende di Stato e le spartizioni in Rai. Ecco come il leader M5S è diventato l'avversario prediletto della premier

Si oppongono ma si tengono l’un l’altro, polemizzano ma spartiscono. Hanno ruoli diversi ma tratti comuni: un certo populismo, nervature di anti-politica, broncio fisso contro le élite, l’abilità nell’uso illusionista della comunicazione. Hanno eletto in Parlamento una valanga di sconosciuti, le cui gesta meriterebbero osservatori più attenti. Hanno avuto e hanno gli stessi competitor: il leader leghista Matteo Salvini, ad esempio, vicepremier nei governi di entrambi, e per entrambi prima o poi terreno di caccia, per conquistare voti (lei) o riconquistare credibilità (lui). Addirittura convergono anche nei racconti sul Pd, sul quale riportano le stesse versioni di comodo: per esempio che, a differenza loro, vorrebbe «accogliere tutti i migranti». A dirla con un paradosso, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni avrebbero dovuto incontrarsi prima: forse ora militerebbero nello stesso schieramento.

 

Quel che è certo è che di rado s’era vista prima d’ora una così grande sintonia di intenti, ovviamente sotterranea rispetto alla lotta politica, un antagonismo che alla fine vira in convergenza, quando non in alleanza occulta. Vale anzitutto nell’essere l’uno eccellente nemico dell’altra: passati i primi mesi di governo, Meloni ha infatti scelto Conte come la più comoda incarnazione dell’opposizione, perché rafforzare lui significa tenerla divisa. Lui s’è fatto volentieri opzionare, è stata la sua fortuna: da quel momento le sue azioni nei sondaggi sono risalite. Addirittura, ha certificato la rilevazione di Quorum/Youtrend per Sky, questa settimana per la prima volta - perdendo la premier un punto - è avvenuto il sorpasso per percentuale di popolarità da parte del capo M5S: 37 punti lui, 36 lei.

 

Nessuno meglio di Meloni ha contribuito del resto a esaltare le gesta dei governi Conte, uno e bino. Il superbonus e il reddito di cittadinanza, che nell’era del governo di Mario Draghi apparivano per lo meno come misure che avevano fatto il loro tempo, prolungate per capriccio dei partiti ma destinate a essere spazzate via, nell’era della pulzella di via della Scrofa - un governo senza misure-simbolo e privo di una visione a lungo termine - sono diventati il simbolo di ciò che c’era da fare. Smontare cioè quanto fatto in precedenza.

 

Il governo del disfare ha così innalzato a totem negativo il reddito che sovvenziona «chi potrebbe lavorare» e moltiplicato ogni tre settimane il peso dei bonus sui conti pubblici. Adesso siamo 90 miliardi, ma non è detto sia finita. Conte, d’altra parte, fa la stessa cosa: ogni tre settimane rivede al rialzo gli effetti positivi della sua misura sui conti pubblici. Siamo arrivati a «un milione di posti di lavoro in più» e un «impatto sul Pil che ha fatto scendere il debito pubblico di 10 punti», ma ancora forse non basta. I numeri di queste grandezze sono cosa da specialisti, la gente tende a non ricordarli: quel che conta è trasmettere l’idea, piuttosto manichea, della polarizzazione. Noi siamo i buoni, gli altri i cattivi. All’elettore la scelta su chi sia questo noi: state col superbonus o contro il superbonus, col reddito o contro il reddito, importante è che tertium non datur. E del resto Giuseppe Conte assai di rado lascia lo spazio sufficiente a immaginare che oltre a lui ci sia un’altra opposizione: qualsiasi idea, se buona, l’aveva avuta prima lui. Come il salario minimo, proposta unitaria delle opposizioni, bandiera che una volta fu anche della sinistra, prima dei Cinque Stelle. E quindi a inizio luglio per chiudere l’accordo il capo del M5S ha preteso che la prima firma sulla proposta di legge fosse la sua.

 

Si comporta così anche per quel che riguarda le nomine. L’aver guidato gli ultimi due governi su tre, dà infatti all’Avvocato del Popolo una certa agibilità sul fronte dei nomi di sottogoverno: nel senso che v’è gente in ogni dove pronta o disponibile a essere o diventare quota M5S, tanto più perché il Pd a questo giro ha preferito starci poco e niente al tavolo. E così la discussione sulle nomine delle aziende di Stato, come ha notato a suo tempo anche Lucia Annunziata, è stata gestita con grande abilità da Conte «che ha portato a casa ottimi nomi senza apparire consociativo».

 

Vi è poi l’intero capitolo Rai, a partire dal primo paragrafo: dopo un’era di rapporti inesistenti tra M5S e la Rai di Carlo Fuortes, il partito di Conte si è subito qualificato per il nuovo campionato: una brillante astensione da parte di Alessandro di Majo, esponente nel cda in quota M5S, ha subito messo le cose in chiaro sull’ascesa di Roberto Sergio ai vertici della tv di Stato. Prequel per la spartizione di una serie di caselle che è poi puntualmente avvenuta, sia dentro la Rai sia in Parlamento, con l’elezione alla presidenza della Commissione Vigilanza della senatrice grillina Barbara Floridia.

 

D’altra parte, zitti al momento del mancato rinnovo del contratto che ha portato fuori dalla Rai Fabio Fazio, i Cinque Stelle non hanno pronunciato un verbo neanche a fine luglio, al momento della cancellazione del programma “Insider” di Roberto Saviano, già realizzato e pronto per essere mandato in onda. Dal Movimento non è volata una mosca: in commissione Antimafia, all’appassionata richiesta del dem Walter Verini di discutere la «defenestrazione inquietante» di Saviano, il magistrato Cinquestelle Federico Cafiero de Raho si è potuto associare solo una prima volta. Dopo ha prevalso anche qui la linea dell’assoluto silenzio del M5S. L’unica parola pubblica che si rinviene è stata pronunciata dalla presidente della vigilanza Floridia, che l’ha definita «una scelta aziendale che conserva dei contorni poco chiari», in una intervista su Avvenire dal titolo «la Rai non dia spazio ai negazionisti del clima». Poco meno di Robespierre, insomma.

 

Ed ecco che per questa via dai carissimi nemici passiamo alla convergenza di interessi, a una specie di alleanza in cui M5S non è antagonista, ma parte del sistema Meloni: un Giusepponi. Una convergenza a volte nei fatti: in molti hanno notato, a partire da Conte stesso, quanto il decreto per il prelievo sugli extraprofitti delle banche estratto da Meloni in mezzo all’estate somigliasse a uno dei cavalli di battaglia dei Cinque Stelle.

 

Una convergenza nelle nuance anti-establishment. Ma anche formule magiche per conquistare l’elettorato nei punti molli: ha fatto molto discutere, in questi giorni, la presa di posizione sul tema dei migranti, da parte di Giuseppe Conte, intervistato da Bruno Vespa a “Porta a porta”: «Il Pd è per l’accoglienza indiscriminata, per noi non è possibile, ci sono dei percorsi ragionevoli, pragmatici». Ecco la discussione si è appuntata qui, sulla posizione anti-Pd, ma nessuno, neanche in Fratelli d’Italia, ha poi raccontato o fatto notare quali siano le basi di questa “terza via” contiana all’immigrazione. Che invece meritano: «Bisogna lavorare nei Paesi di transito e origine, ma con rispetto, con diplomazia sotterranea, con l’intelligence. Si possono costruire dei punti di raccolta delle domande, non delle persone - perché quello costa molto ed è più difficile da realizzare. Potremmo addirittura osare la realizzazione di ambasciate europee che col personale di Frontex, delle Nazioni Unite possono addirittura scrutinare le domande. Diamo un forte messaggio ai Paesi di origine e di transito africani delle rotte migratorie: guardate chi ha diritto alla protezione internazionale non deve pagare», ha detto Conte a “Porta a porta”. Meloni sogna il blocco navale l’avvocato del popolo il blocco delle carte bollate, con l’aiuto del personale di Frontex e di ambasciate europee tutte nuove.

 

Dalle parole ai fatti, è addirittura limpido l’assist arrivato a inizio luglio a Meloni da parte dei Cinque Stelle. Il 5 luglio, solo quattro giorni dopo la presentazione della proposta sul salario minimo che aveva unito per la prima volta le opposizioni dopo la più grave sconfitta degli ultimi vent’anni, al Senato il capogruppo grillino Stefano Patuanelli ha depositato senza preavviso la mozione di sfiducia individuale contro Daniela Santanchè. Una tattica che il Pd aveva escluso perché puntava sull’imbarazzo, soprattutto leghista, che scuoteva evidentemente la maggioranza sul caso della ministra del Turismo: sperava che questo, la tensione in seno alla maggioranza, facesse da detonatore per delle dimissioni. La mozione di sfiducia, come sempre accade, ha costretto i due fronti a compattarsi. Caso Santanchè chiuso.

 

Convergenze anche d’altro tipo: otto giorni dopo, il 13 luglio alla Camera, i Cinque Stelle hanno votato assieme alla maggioranza di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega per aumentare l’indennità ai capigruppo, allineandola ai presidenti di commissione: una notevole innovazione, rispetto ai tempi in cui il Movimento predicava e faceva praticare i tagli alla kasta, che ha messo a disagio anche il capogruppo Francesco Silvestri («non mi avvarrò in nessun modo di questo aumento», ha detto).

 

C’è, alla fine, un idem sentire anche degli eletti: tutt’altro da sottovalutare. Non tutti ricordano ad esempio che il deputato eletto a Caivano, un grillino, ha sconfitto il dimaiano Vincenzo Spadafora in uno degli undici collegi uninominali conquistati da M5S nel settembre 2022 (tutti in Campania). Si chiama Pasqualino Penza, ha 37 anni, è agente scelto della Polizia di Stato, nel 2009 si candidò alla provincia di Napoli con la Democrazia Cristiana di Giuseppe Pizza a sostegno del candidato forzista Luigi Cesaro, nel 2020 si è candidato per il comune coi Cinque Stelle, poi è divenuto assessore all’Ambiente fino al 2021. A fine agosto è andato a sostenere la premier: «Meloni non va contestata, sarò lì per ringraziarla», ha fatto sapere alla vigilia della visita a Caivano. Dagli applausi all’idem sentire, alle convergenze di interessi. Tanto, di una coalizione alternativa nessuno dei due sembra avvertire davvero la mancanza.

 

 

La replica di Pasqualino Pensa al nostro articolo

Gentile direttore,
desidero fare alcune precisazioni in riferimento all'articolo intitolato "Melonte Giorgia e Giuseppe La strana intesa", pubblicato il 29 settembre scorso. Il mio fu un invito affinché si rispettasse la visita di una alta carica istituzionale, alla quale io e tanti altri avevamo rivolto l'invito a venire di persona e assumersi le sue responsabilità. Peraltro, la mia citazione è incompleta, dissi anche "non è il momento della protesta", perché serve collaborazione istituzionale di fronte a casi come quello di Caivano. Non a caso, fu proprio don Patriciello a invitare me e tutti gli eletti del territorio a essere presenti in quella occasione. Tutto ciò non mi ha impedito di rivolgere alla presidente del Consiglio dure critiche sia nell'aula della Camera che in diverse dichiarazioni alle agenzie di stampa, per stigmatizzare le scelte operate dal governo, la loro linea politica tutta improntata alla propaganda e le modalità della visita a Caivano, in cui Meloni si è sottratta al dialogo con i cittadini, le associazioni e i rappresentanti politici.