Un nuovo parco dedicato al mondo antico, reperti provenienti da ogni parte del mondo. Il fervore nella Capitale è sempre più visibile e gli eventi per il pubblico si moltiplicano

Mostre, scoperte, restauri: il fervore archeologico che ha investito già da tempo la capitale ha avuto un’accelerazione negli ultimi mesi, moltiplicando gli eventi per il vasto pubblico degli appassionati. Il Palatino figura tra i grandi protagonisti. Alla fine di settembre, Alfonsina Russo, direttore del Parco del Colosseo, apriva ai visitatori la Domus Tiberiana, dopo cinquant’anni di chiusura per problemi strutturali. Gli ambienti ripristinati costituiscono un tassello importante per ampliare le conoscenze del primo Palazzo imperiale, dove avevano abitato Caligola, Claudio con Messalina, Nerone.

 

Nel Cinquecento, tutto il complesso era diventato proprietà dei Farnese, che vi installarono i celebri Horti. Punto di attrazione, il “Ninfeo della pioggia”: il luogo di ristoro con una fontana centrale che provocava un dolce suono, quasi una lieve pioggia. Al restauro di questo angolo di delizie si è poi affiancata una mostra, dedicata alla nobile famiglia: ”Splendori Farnesiani”, per entrare nei valori e nella cultura dell’aristocrazia, non solo romana, tra tardo Rinascimento e Seicento barocco (curata da Alfonsina Russo, Roberta Alteri e Alessio De Cristofaro, catalogo Palombi Editori). Fino al 7 aprile, apparati digitali, quadri, disegni, oggetti d’arte, caratterizzano la singolare esposizione, con reperti di raro pregio.

 

Il colle aveva in serbo un’altra meraviglia, presentata a restauri avanzati dopo un anno di ricerche: una dimora, obliterata da due edifici successivi, che risale al II sec. a.C. Apparteneva a un romano altolocato: nella sala centrale per banchetti estivi, come in una grotta, gli ornamenti erano raffinati e costosi, tra stucchi e mosaici realizzati con conchiglie e vetri policromi. «Non conosciamo il nome del proprietario», commenta il direttore Alfonsina Russo, «ma ci auguriamo che le ricerche in corso, volte alla messa in luce di altri ambienti fino ai piani pavimentali, possano rivelare qualche indizio a riguardo. Questa domus ci permette però di conoscere il gusto dell’élite romana nella decorazione di interni alla fine della Repubblica, grazie a uno stato di conservazione che di solito abbiamo solo per l’area vesuviana».

 

Colonna Traiana nel Parco archeologico del Colosseo

 

Intanto sul Celio è stata inaugurata la prima parte di un nuovo Parco archeologico: il giardino che raccoglie una quantità di marmi divisi per tipologia accanto a un Museo davvero originale perché dedicato alla “Forma Urbis” di Roma, da cui prende il nome. Si tratta della pianta topografica della capitale risalente all’inizio del III secolo d.C., quando l’imperatore Settimio Severo la sistemò sulla parete di un’aula nel Foro della Pace, da lui restaurato dopo un grande incendio, lì dove si trovava la versione di epoca flavia. La grande mappa era composta da 150 lastre marmoree, per un’estensione di 18 x 13 metri, e non si può escludere che vicino vi fosse pure una “carta” dell’Italia. I romani erano abituati a queste illustrazioni: già Vipsanio Agrippa, al tempo di Augusto, nel Portico costruito con la sorella aveva esposto una mappa dipinta dell’impero, con l’indicazione delle città e delle strade principali. La Forma Urbis entrava nei particolari: vie, edifici pubblici e religiosi di Roma, arricchiti da colori; peccato che di questo straordinario documento sia arrivato a noi solo una decima parte. Tuttavia i ritrovamenti hanno reso possibile ricomporne alcuni tratti. Oggi, i reperti di sicura identificazione sono stati posizionati nel Museo sulla grande mappa di Roma che Giovanni Battista Nolli aveva realizzato nel 1748. L’altra novità è che la planimetria non è fissata al muro come in origine, ma distesa sul pavimento, e quindi più leggibile; anzi, percorribile.

 

Camminiamo così sui vetri che la proteggono, tra il Colosseo e il teatro di Pompeo, riconoscendo altri monumenti e seguendo il corso del Tevere, tra le Ville con giardini e le chiese esistenti nel Settecento. «Il Museo non solo colma la grande lacuna di un’esposizione della Forma Urbis» dice Claudio Parisi Presicce, sovrintendente ai Beni Culturali di Roma Capitale, «ma apre una nuova storia per la valorizzazione del Celio. Infatti, con i fondi del Pnrr apriremo prossimamente anche il vicino Antiquarium Comunale, chiuso nel 1939 per la costruzione della metropolitana, e la Casina del Salvi come Coffee House».

 

Domus del Viscus Tuscus al Palatino

 

L’allestimento dell’esposizione comunale più recente, nei Musei Capitolini di Villa Caffarelli, riguarda invece “Fidia”, simbolo eccellente del classicismo greco (a cura di Claudio Parisi Presicce, catalogo “L’Erma” di Bretschneider, fino al 5 maggio). A Fidia si devono le prime statue colossali crisoelefantine (in oro e avorio): l’Atena “Parthènos” ad Atene, e lo Zeus ad Olimpia, considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Il suo nome è legato all’Atene di Pericle, che gli affidò la regia di tutti i lavori del Partenone, il tempio in marmo sull’Acropoli dalle perfette proporzioni. Frutto del suo genio creativo erano le 92 metope esterne, che raccontavano miti celebri, e il fregio che correva sulla cella interna, dove brillava il colosso della dea, raffigurando eventi e persone della società ateniese nel V sec. a.C. (parte notevole di questi marmi si trova al British Museum).

 

Brocca con sirena, ultimo quarto del XVI secolo, Collezione Farnese

 

I reperti della rassegna arrivano da musei di tutto il mondo, e molti sono inediti. Da segnalare, oltre la tazza con l’incisione: “sono di Fidia”, quattro frammenti originali del fregio del Partenone, la copia romana in marmo pentelico dello scudo dell’Athena Parthènos, il Codice Hamilton 254 (da Berlino), con la prima immagine arrivata in Europa del più famoso tempio greco. Nello straordinario panorama espositivo anche il Colosseo ospita una nuova mostra; in questo caso, un vero e proprio monumento: “La Colonna Traiana. Il racconto di un simbolo” (a cura di Alfonsina Russo, Federica Rinaldi, Angelica Pujia, Giovanni Di Pasquale, fino al 30 aprile). Nel secondo ordine dell’Anfiteatro ci imbattiamo subito in cinque pilastri fasciati con le riproduzioni dei bassorilievi che ornano la Colonna. Sono scene delle due guerre che l’imperatore Traiano aveva affrontato (tra il 101e il 106 d.C.) per la conquista della Dacia, odierna Romania, le cui ricchezze permisero la costruzione di un Foro grandioso, a firma dell’architetto Apollodoro di Damasco.. Alla fine del percorso, uno spazio è riservato allo schermo dove si “srotolano” tutte le raffigurazioni, e non mancano le curiosità in numeri: l’imperatore compare 58 volte, i piedi sono 930, le navi 33, le orecchie 1429. Strumenti e congegni per l’erezione del monumento istoriato sono spiegate anche con modelli (di Claudio Capotondi): «tecnologie del passato che incuriosiscono molto i visitatori, specialmente i più giovani», dice Federica Rinaldi, l’archeologa responsabile del Colosseo. Se poi si vuol conoscere la storia dell’antica Romania, basta andare al Museo nazionale romano delle Terme di Diocleziano, dove la rassegna “Dacia. L’ultima frontiera della Romanità” espone fino al 21 aprile quasi mille reperti, fra i quali oggetti d’oro e gioielli. Ci sono state polemiche per le didascalie, non sempre impeccabili; ma nulla tolgono al valore di un’esposizione che spiega tanti intrecci culturali dall’età del Ferro all’epoca bizantina.