Resistenti
«Anche quando non è San Valentino, coltivate la spinta del vostro amore»
Nelle relazioni c’è una distanza in cui si può volere bene all’altro e a sé stessi contemporaneamente, senza rischiare di perdersi. Ma occorre uscire dalla propria zona di comfort
Forse nei vostri cieli vedete ancora incastrato un coagulo di microplastiche rosso a forma di cuore, stremato dall’elio che lo teneva in tensione. Forse sono rimasti esposti qualche ghirlanda e qualche peluche; in certi luoghi un po’ distratti e pigri sopravvive la festività, senza il solito tsunami che lava via tutto e dimentica ciò che è stato, ossessivamente, fino a qualche giorno prima. È da superiori e cinici sostenere che San Valentino sia solo una trovata consumistica, ma è anche vero. Lo è anche dire che tutti si amano un po’ per finta e perché devono, perché hanno paura di morire da soli e così via. È cinico, scomodo e maleducato da dire, ma anche un po’ vero. È da romantici e idealisti dire che l’amore ci salva, però accade spesso. È da progressisti, sinistroidi e «politicamente corretti» dire che, oltre la monogamia etero-cis-patriarcale, ci sono infiniti modi di amare e forme relazionali in cui trovarsi; che si possono costruire nuove famiglie, nuovi affetti, si possono trovare modi per «lasciare l’Impero senza sudditi» (Vasallo, 2022).
È un dato di realtà che il nostro desiderio cambi con l’età, con il bel tempo, con il maltempo, con le persone che incontriamo, con quello che ci va. È vero che si può amare, nonostante le relazioni. Goethe ne “Le affinità elettive” scriveva di due amanti che si lasciarono senza essersi capiti, «ma che non è facile capirsi a questo mondo». L’affermazione forse ci provoca un sospiro, smuove i rimpianti e solidifica in noi la certezza dell’ineluttabilità di alcuni destini. Palahniuk in “Cavie” scrive: «Amiamo il dramma. Amiamo il conflitto. Abbiamo bisogno di un diavolo o ne creeremo uno». Leggendolo potremmo quasi chiuderci in un ghigno, ripensando al desiderio di riempirci il pomeriggio, di avere qualcosa di interessante da dire; forse ricorderemo anche la pulsione di far soffrire l’altro, di demonizzarlo.
I Cccp invece cantavano «non dire una parola che non sia d’amore», anche se poi non è andata esattamente così. Un ragazzo su un ponte a Venezia argomentava che «in amore bisogna dare tutto senza rivelare tutto». Il padre di una mia amica colombiana un giorno mi ha vista triste e mi ha detto che «non ci manca nulla, ci avanza amore». Alcune frasi che girano online, con un font discutibile e lo sfondo di un tramonto, recitano: «Do it from love, not for love», frase che io interpreto come un: agisci sempre partendo da un luogo di amore, affinché la spinta sia più pura possibile.
Insomma, forse gli incontri con sibille metropolitane e frasi motivazionali risuonano in molti di noi perché sicuramente nei rapporti con gli altri ci sta qualcosa che ancora non abbiamo capito. Grazie alla letteratura abbiamo capito che non siamo solo noi a soffrire, grazie alla musica ci siamo concessi qualche pianto. Così, si è solidificata in noi la certezza che vivere sia, profondamente, percepire l’Altro. Abbiamo compreso, con tempo e fatica, che nelle relazioni c’è una distanza in cui si può amare l’altro e sé stessi contemporaneamente, senza rischiare di perdersi.
Io, dal canto mio, credo nell’inceppare la macchina di quelle relazioni che avvantaggiano capitale e patriarcato. Verrano tempi migliori, certo, ma questo è il nostro: bloccare il sincrono di un mondo perfetto, uscire dai tempi dell’amore dettati della società dei consumi, dal comfort. Io, per passione e desiderio, custodisco la pazienza e la creazione del momento propizio. Come una rivoluzionaria in pensione, io dell’amore custodisco la spinta.