Il Festival si appropria sorridendo di una conquista intellettuale e sociale e ce la restituisce bella patinata. Dunque la annienta. Sarebbe il caso di ragionare su cosa sia davvero la cultura popolare

Potrebbe sembrare un azzardo parlare di Sanremo ora che tutti hanno smesso di parlarne (proprio tutti: perché, come scriveva Beniamino Placido trent’anni fa, il Festival è il nostro «richiamo militare obbligatorio»). Una settimana dopo, però, si può provare a ragionare con calma su cosa intendiamo per cultura popolare: perché a coloro che si sono sottratti all’immenso dibattito social, fatto di commenti canzone per canzone, si rinfaccia di disprezzare proprio la cultura popolare, quella che unisce vecchi e giovani, ricchi e poveri (con la minuscola), colti e meno colti.

 

Per capire di cosa stiamo parlando, evochiamo il professor Henry Jenkins, il sociologo che ha diretto al Mit di Boston il Comparative media studies program e che nel 2006 pubblica Cultura convergente, dove ci dice che abbiamo acquisito la possibilità di combinare insieme diversi media e di produrre contenuti in prima persona, si tratti di musica, di testi, di immagini, e di poterli far circolare gratuitamente. Una nuova forma di cultura popolare, appunto: il problema italiano, ancora non troppo superato, è che per cultura popolare si intende il folk, e dunque la sagra dei peperoni cruschi di Matteo Salvini e le tarantelle di Antonio Razzi su TikTok, ma pazienza.

 

Ora, quel che avviene una quindicina di anni dopo è che quella produzione spontanea di contenuti che Web e social ci hanno permesso di diffondere e affinare non è più nostra, ammesso che lo sia mai stata, ma viene fagocitata e restituita da spettacoli come Sanremo. Facciamo un esempio pratico. L’obiezione che viene fatta da chi non guarda o non commenta il Festival è semplice (e sensata, a ben vedere): ma come, vi occupate di canzonette mentre in Argentina Libertad Avanza, il partito del presidente Javier Milei, presenta una legge in cui l’aborto diventa un crimine? Ma come, pubblicate pensosi post sul Ballo del Qua Qua mentre rischiamo un mondo dominato da Putin, Trump e Netanyahu? Ma come: e Ilaria Salis? E i femminicidi? E Gaza? E i fiori che sbocciano a febbraio?

 

Allora, il problema non è occuparsi di Sanremo mentre avviene tutto questo: è che Sanremo ci precede, e si occupa delle stesse tematiche da un palcoscenico che si presume più vasto dei social, e affidando a cantanti e comici gli argomenti che ci fanno sentire buoni e giusti conquista per sé la patente di intrattenimento altrettanto buono e giusto. In sostanza, si appropria sorridendo di una conquista intellettuale e sociale realmente «popolare» e ce la restituisce bella patinata. Dunque la annienta. Alla faccia del webfare (lo stato sociale dove ognuno vive della propria produzione di dati sul Web, sognato dal filosofo Maurizio Ferraris in Documanità), il nostro lavoro gratuito su Internet è solo materiale per gli autori televisivi.

 

Dunque, la cosa preziosa di oggi è Contro Antigone di Eva Cantarella, pubblicato da Einaudi. Come sarebbe, contro Antigone? In realtà, come specifica l’autrice, il libro è semmai contro Sofocle, o anche pro Creonte, che, dice Cantarella, rimane solo a difesa della legge. Perché non è detto che il tiranno avesse del tutto torto e non è detto che la fanciulla divenuta eroina e simbolo del popolo avesse del tutto ragione. I miti ci servono: specie se suscitano dubbi, perché è nel dubbio e nell’interrogarsi che si cresce come società, e perché dei dubbi e dei chiaroscuri è molto più difficile appropriarsi.