L’8 marzo del 2020 scoppiarono alcune rivolte in diversi penitenziari italiani che portarono alla morte di 14 detenuti in 72 ore. E i difensori delle vittime si oppongono all'archiviazione dell'inchiesta sui fatti di quei giorni

L’8 marzo scorso 30 mila di noi erano in corteo a Roma contro la violenza patriarcale. Nel frattempo, a Modena, c’è chi era presso i cancelli del carcere di Sant’Anna per ricordare coloro che, lì, avevano perso la vita quattro anni prima. Chi c’era ha incastrato delle rose rosse nella recinzione e ha posto una scritta sopra dei fiori e un tappeto di felci: «I caduti della rivolta». Uno striscione in rosso e nero recitava: «Da Modena nulla è cambiato, uccide il carcere uccide lo Stato. Liberate tuttə». Vi è una linea apparentemente invisibile sui fatti intorno alla data dell’8 marzo che ha approfondito splendidamente, tra le altre, Angela Davis in “Aboliamo le prigioni?”. Ma quali erano i fatti? L’8 marzo di quattro anni fa scoppiarono alcune rivolte in diversi penitenziari italiani. In 72 ore morirono 14 detenuti: 9 di loro erano a Modena, 3 nel carcere di Rieti e 1 a Bologna. Nelle Case circondariali, come quella di Sant’Anna a Modena, sono detenute le persone in attesa di giudizio o quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni.

 

Quattro anni fa, come oggi, la situazione nelle carceri italiane era già in condizioni inumane. Le tragedia era preannunciata dall’inasprimento delle condizioni detentive a causa della pandemia. Furono infatti sospesi i colloqui e negati i permessi, in alcuni casi anche telefonici. Non c’era comunicazione chiara su quali fossero i rischi legati al Covid-19 e le carceri erano ovviamente sovraffollate: quasi diecimila persone in più rispetto ai posti disponibili. Subito si parlò di decesso per overdose di metadone, che alcuni rivoltosi avevano rubato dall’infermeria. Anche se i dubbi su questa versione emersero subito, la gestione mediatica di questa tragedia doveva essere sbrigata in fretta e, in un momento come quello, con «la brava gente» che moriva chi se ne importava dei detenuti?

 

E dunque tutte le morti sono state archiviate: non sono stati ritenuti responsabili né l’amministrazione penitenziaria né chi gestì i soccorsi o i trasferimenti. Le persone che hanno perso la vita si chiamavano: Slim Agrebi, Erial Ahmadi, Ali Bakili, Hafedh Chouchane, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Lotfi Ben Mesmia, Salvatore Piscitelli, Abdellah Rouan, Carlo Samir Perez Alvarez, Marco Boattini, Ante Culic e Haitem Kedri. Sono state 70 le persone indagate per rivolta, 27 gli agenti penitenziari feriti e oltre 120 quelli indagati per presunte torture, accusati da 11 detenuti, ma la Procura di Modena ha archiviato l’inchiesta. Ora alcuni difensori si sono opposti, il 21 marzo saranno ascoltati dal gip di Modena. Tra gli slogan che rafforzano chi chiede giustizia si sente: «La verità non si archivia». A luglio del 2023 è anche nato “Morire di carcere”, un gruppo di sostegno psicologico per i cari delle persone che hanno perso la vita nelle strutture penitenziarie. Il gruppo si incontra online.

 

Quando si parla di morti in carcere si parla di stillicidi: nel 2023 si sono tolte la vita 63 persone. Nel 2024 già più di venti suicidi. In media, uno ogni 60 ore. Anche considerando solo le condizioni materiali e le condizioni in cui vertono gli istituti penitenziari, siamo sicuri che il crimine corrisponda alla pena? Uno sguardo anti-carcerario sul mondo ci offre, spesso, uno sguardo più lucido sul sistema economico, sociale e politico in cui siamo immersi; vale la pena allenarlo, mentre continuiamo a chiedere verità e giustizia per chi se ne è andato.