Per l'approvazione manca ancora il voto del Consiglio europeo. Ma i vincoli ora sono meno stringenti seppure in linea con l’obiettivo di una decarbonizzazione entro il 2050

Il 12 marzo il Parlamento europeo ha approvato, con ampia maggioranza (370 favorevoli, 199 contrari, 46 astenuti) la direttiva “Energy performence of buildings”, la cosiddetta direttiva “case verdi”. Manca ancora il voto del Consiglio europeo che raccoglie i governi dell’Unione, ma i giochi sono fatti. Nel Parlamento europeo i rappresentati italiani si sono schierati in linea con la divisione tra governo e opposizione nel nostro Parlamento: da un lato Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, dall’altro gli altri.

 

I partiti governativi si sono opposti nonostante la direttiva sia più flessibile di quella proposta un anno fa: a stretti vincoli sulla necessità di raggiungere, per tutti gli edifici, certe classi energetiche entro il 2033, è ora richiesto ai Paesi di presentare piani volti al risultato finale, cioè ottenere un calo delle emissioni a certe scadenze e una decarbonizzazione entro il 2050. Spariti tutti i vincoli? No, ma quelli rimasti sono meno stringenti: i nuovi edifici dovranno essere a zero emissioni dal 2030; gli edifici residenziali dovranno ridurre il consumo di energia del 16% entro il 2033 e del 20-22% entro il 2035; sempre per gli edifici residenziali i piani nazionali dovranno prevedere obiettivi di ristrutturazione espressi in termini di edifici da ristrutturare annualmente, compreso per il 43% meno performante; il 16% degli edifici non residenziali con le peggiori prestazioni dovranno essere ristrutturati entro il 2030 per raggiungere requisiti minimi di prestazione definiti dagli Stati stessi. Inoltre, l’obbligo di installazione degli impianti solari sarà progressivamente ampliato, ma solo «se tecnicamente ed economicamente fattibile». I piani verranno valutati dalla Commissione europea. Si segue quindi la logica dei Piani nazionali di Ripresa e Resilienza: alcuni vincoli generali e piani nazionali sottoposti al vaglio della Commissione.

 

Mi sembra che sia stato un cambiamento appropriato, anche per aumentare il grado di “ownership” del programma di ristrutturazione del nostro patrimonio immobiliare, il cui costo potrà essere finanziato in parte da risorse pubbliche, come esplicitamente previsto dalla direttiva.

 

Poteva andare meglio? Certo. Ancora una volta, vincoli regolamentari sono introdotti dall’Unione europea, ma il finanziamento dei costi resta decentrato ai singoli membri dell’Unione. Ma non potrà che essere così finché il bilancio dell’Unione resta piccolissimo, con risorse proprie modestissime e con l’obbligo di essere sempre in pareggio. Ma, nel complesso, si tratta di una direttiva accettabile e mi risulta difficile capire la continua opposizione del governo, visti i passi avanti in termini di flessibilità: fra l’altro la direttiva sarà soggetta a revisione entro il 2028. A meno di non voler rigettare l’intero presupposto dell’iniziativa, ossia avere un piano credibile per la decarbonizzazione entro il 2050. E, soprattutto, a meno di non voler capire che i soldi spesi per ristrutturare i nostri edifici sono un investimento non solo per la riduzione dei gas serra (un bene globale), non solo per l’abbattimento delle polveri sottili (un bene nazionale visto che queste finiscono nei nostri polmoni), ma anche per ridurre le bollette che pagano le nostre famiglie e le nostre imprese che, abbiamo visto anche di recente, possono diventare parecchio pesanti.