Sinn Fein a guida femminile a Dublino come a Belfast. Una svolta, che assieme alla demografia fa sembrare meno lontana la prospettiva di un Nord ricongiunto alla Repubblica

I tempi dei cittadini di serie B sono passati da un pezzo, e non torneranno più», proclama Michelle O’Neill, la vicepresidente quarantasettenne del Sinn Fein, il partito repubblicano cattolico, nel suo discorso di insediamento alla premiership del Parlamento “devoluto” nordirlandese di Stormont, lo scorso 3 febbraio a Belfast. Lei, che di quei cittadini – gli irlandesi cattolici “intrappolati” in Irlanda del Nord – è paladina e rappresentante. E che di quel Parlamento, pensato per i monarchici, è la leader repubblicana. O’Neill – una donna di estrazione operaia cresciuta in una famiglia militante dell’Ira e portatrice nella carne (un padre arrestato, un cugino ucciso) della faida e delle vendette di una comunità politica atavicamente maschio-centrica – dell’Ira non sconfessa la violenza e ne onora i membri. Il suo mancato riconoscimento del Paese di cui prende le redini è implicito nel riferirvisi come al «Nord dell’Irlanda». E c’è poco da meravigliarsi: l’Irlanda del Nord, l’Ira voleva distruggerla.

 

Nella carica di prima ministra – come previsto dagli accordi di pace del Venerdì santo del 1998, che portarono a una cessazione della violenza e a un governo devoluto, ossia co-gestito dagli ex belligeranti sotto la potestà di Londra – O’Neill sarà affiancata, in qualità di vice, dalla rappresentante degli unionisti democratici del Dup, Emma Little-Pengelly. Quarantaquattro anni, anche la sua è una vita segnata dalla violenza “settaria” nelle file dell’unionismo. Sulla carta i ruoli sarebbero pari, ma non ditelo agli unionisti, che “vice” non sono stati mai: per loro, è il mondo alla rovescia. Per tacere dei gruppi paramilitari unionisti e dei loro simpatizzanti, che si vedono a loro volta traditi dal Dup, colpevole di aver arretrato supinamente davanti all’avanzata repubblicana.

 

Discorso storico, perfino fantapolitico quello di O’Neill, se si guarda ai precedenti 103 anni di storia di questo tormentato lembo settentrionale d’Irlanda. Sei contee dilaniate al loro interno da una faida incistata nella triplice contrapposizione nazionalismo/unionismo, cattolicesimo/protestantesimo, repubblicanesimo/lealismo. Dal suolo imbevuto di sangue (3.500 morti solo nei circa trent’anni di Troubles). Uno Stato circoscritto da Londra nel 1921 per tutelare quella che era una maggioranza anglicana pro-Regno Unito discriminando la minoranza cattolica, che ha attraversato decenni di sollevazioni violente e di lotta armata faticosamente pacificati nel 1998 e che ha visto nell’ultimo, politicamente esagitato decennio capovolgere drasticamente gli equilibri demografico-elettorali a favore di quest’ultima.

 

Finché il Sinn Fein di O’Neill non vince le elezioni del 2022, in un passaggio epocale che rende per la prima volta possibile, se non probabile, la riunificazione via referendum dell’isola divisa un secolo prima. Né più né meno della ragion d’essere del suo partito, eppure da  lei programmaticamente taciuta nel suo intervento perché troppo dirompente, e perché il dissesto in cui versa il Paese conta ormai quanto le appartenenze identitarie, se non di più. Meglio limitarsi a rassicurare circa l’intento di «rappresentare tutti» e di far fronte allo stato abbastanza disastroso dell’economia: diseguaglianze rampanti, crisi degli alloggi e dei servizi pubblici, soprattutto una sanità allo sfascio.

 

Mary Lou McDonald (a sinistra) e Michelle O’Neill, presidente e vicepresidente del Sinn Fein

 

Se l’insediamento di O’Neill avviene solo adesso è dipeso della famigerata British Exit, in modo non dissimile da quanto accaduto in Scozia. Nelle sei contee, una netta maggioranza aveva votato invano per rimanere nell’Ue, mentre l’allora dominante Dup era uno sfegatato quanto prevedibile sostenitore dell’uscita. Donde il compito impossibile dei vari premier britannici, assunto con mendace verve da Boris Johnson: mantenere l’Irlanda del Nord simultaneamente nel Regno Unito e nell’Unione europea. Con la risultante duplicità del confine – tra le due Irlande e fra Regno Unito e Unione europea – che rendeva necessari estenuanti lavorii diplomatici onde evitare un confine fisico che avrebbe quasi certamente riacceso il conflitto armato.

 

Il Dup aveva boicottato gli ultimi assetti doganali fra Londra e Belfast, nella convinzione che introdurre controlli su alcune merci provenienti dalla Gran Bretagna avrebbe minato l’unità dell’Irlanda del Nord al Regno Unito. Alla fine, dopo mesi di negoziati inconcludenti, il governo di Rishi Sunak ha “costretto” il leader del Dup, Jeffrey Donaldson, a fidarsi controvoglia di rassicurazioni scritte sulla permanenza “indiscussa” dell’Irlanda del Nord nell’Unione, unitamente allo stanziamento di oltre tre miliardi di sterline per soccorrere l’economia, oltre alla minaccia di indire nuove elezioni. Questo ha finalmente permesso l’insediamento tardivo di O’Neill. Nel commentarlo, la leader del Sinn Fein Mary Lou McDonald – di cui O’Neill è vice – ha detto che la riunificazione dell’Irlanda è «a portata di mano», entro il 2030 addirittura. Un’iperbole? Sì e no.

 

Indiscutibile è l’ascesa del Sinn Fein. Insieme, le due leader – una a Dublino, l’altra a Belfast –  hanno dunque rimosso l’immagine macho e violenta del partito, rendendolo appetibile a queste nuove generazioni, per le quali conta un’identità non tanto nazionalista quanto di genere, etnica, civile, ecologista. Le prossime elezioni in Eire sono previste per il gennaio 2025 ed è estremamente probabile che da leader dell’opposizione McDonald diventi Taoiseach, prima ministra. Si configura così un assetto straordinario in cui il Sinn Fein si ritroverebbe simultaneamente con due leader donne alla guida della Repubblica d’Irlanda e dell’Irlanda del Nord: un’unità de facto insomma, che l’agognato border poll finirebbe per rendere de jure, avverando il peggior incubo unionista.

 

Ma l’arrampicata costituzionale resta. L’Accordo del Venerdì santo prevede che il segretario di Stato britannico per l’Irlanda del Nord indìca un referendum «se in qualsiasi momento gli sembri probabile che la maggioranza dei votanti esprima il desiderio che l’Irlanda del Nord cessi di far parte del Regno Unito e faccia parte di un’Irlanda unita». Come accertare tale maggioranza resta nebuloso. Se l’Irlanda del Nord accettasse di unirsi alla Repubblica d’Irlanda ce ne vorrebbe comunque un altro per modificare la Costituzione.

 

E poi, i soliti sondaggi: un decisivo 64% dei cittadini della Repubblica è favorevole all’unità irlandese. Al Nord lo è solo il 30%, il 50% è contrario, con un 20% di indecisi. Ma secondo un recente poll dell’Irish Times, il numero di unionisti nordirlandesi contrari all’unità sarebbe sceso dal 32% al 23%. Comunque vada, la realtà si sta dimostrando come al solito complessa. Più della fede repubblicana nel «destino manifesto» dell’Irlanda del Nord di riconfluire nella nazione irlandese. E più di quella unionista nelle sei contee capaci di produrre maggioranze protestanti in eterno.