Miti in caduta
La stella di Elon Musk si è offuscata
Tesla crolla in Borsa, si appanna l’immagine di azienda sostenibile e si moltiplicano i contenziosi giudiziari. L'immagine dell’imprenditore funambolico non brilla più come prima
«Il peggior nemico di Elon Musk è Musk stesso». È sintetico, efficace e probabilmente veritiero il giudizio di Walter Isaacson, docente di Storia alla Tulane University di New Orleans che ha appena pubblicato una biografia del controverso imprenditore. Troppa esuberanza e aggressività bipolari, troppe dichiarazioni sopra le righe (compresa quella di assumere regolarmente anfetamine e altre droghe), adesso anche l’adesione sempre meno velata alle tesi complottiste care alla destra statunitense compresa l’immancabile provocazione che se Joe Biden vincerà vorrà dire che le elezioni sono truccate. Perfino gli operatori dei mercati, sempre pronti a vendere l’anima a qualsiasi diavolo purché garantisca lucrosi profitti, «non ne possono più», per usare l’espressione di Gene Munster, managing director di Deepwater Asset Management. Così il titolo Tesla, la casa di auto elettriche che Musk creò vent’anni fa in California ed è tuttora la bandiera della multiforme attività del secondo uomo più ricco del mondo nel 2024 per Forbes (era il primo ma è stato superato da Bernard Arnault, il signore del lusso, 233 miliardi di ricchezza personale contro 195), ha perso il 34% dall’inizio dell’anno mentre l’indice Standard & Poor’s 500 cresceva del 9,5%. Tesla è andata perfino peggio di Boeing (-26% nel 2024), considerata la bête noire dagli investitori dopo gli incidenti a catena dei 737 e le dimissioni del top management a partire dal Ceo David Calhoun.
Cosa sta succedendo? Davvero la personalità ingombrante del fondatore è in grado di affossare uno dei titoli-bandiera di Wall Street? La realtà è più complessa. Intanto c’è una crisi di mercato: nei primi tre mesi del 2024 sono state consegnate 386.810 vetture Tesla su 433.371 prodotte. Il calo delle consegne sullo stesso trimestre del 2023 è dell’8,5%, ma sul trimestre precedente di ben il 20%: nell’ultimo “quarto” del 2023 erano stati consegnati infatti 484.507 veicoli (e 494.989 prodotti). È andata peggio delle previsioni degli analisti, che si aspettavano 443mila consegne e una produzione molto superiore. In effetti, però, l’auto elettrica segna il passo in tutto il mondo: costa troppo, i sussidi statali chiesti a gran voce si fanno attendere, la concorrenza cinese è incalzante, non è più sicuro che sarà l’unico mezzo di locomozione fra dieci anni, affiorano dubbi un po’ su tutto: sull’efficacia delle reti distributive dell’elettricità, sullo smaltimento delle batterie, sulla provenienza davvero “green” di tutta l’energia necessaria. Perfino la Byd (Build Your Dreams), basata a Hong Kong e capofila dell’agguerrita pattuglia dell’auto elettrica cinese, dopo aver nel corso dell’anno scorso superato Tesla al primo posto per vendite, ha conosciuto un rallentamento fino a cedere di nuovo nei primi tre mesi del 2024 il primo gradino del podio a Tesla (anche se le sue azioni sono scese solo del 6% dall’inizio dell’anno).
Che ci sia un po’ di confusione nel settore lo prova la vicenda abbastanza paradossale dell’inserimento di Tesla fra le azioni che rispondono ai criteri “Esg”, la sostenibilità ambientale e sociale. Due anni fa il titolo Tesla era stato rimosso dall’indice S&P 500 Esg, benchmark mondiale del mercato. A causarne l’ostracismo è stata non solo la componente ambientale, ma anche le pratiche di assunzione adottate da Musk (tutt’altro che trasparenti e equanimi) nonché le strategie per la catena delle forniture che pare non fossero a prova di “climate risk”. Musk è andato su tutte le furie, ha cominciato a tempestare di tweet feroci dal suo social “X” le autorità finanziarie che l’avevano estromesso, arrivando a definire «uno scandalo» i criteri Esg che «sono stati trasformati in un’arma da falsi guerrieri della giustizia sociale». Su un punto forse aveva ragione: nelle stesse settimane veniva ammessa nel Gotha dell’“Esg rating” la Exxon Mobil, uno dei maggiori inquinatori del ianeta, pare per meriti ambientali acquisiti (unico merito del Ceo Darren Woods è stato quello di aver raccomandato inascoltato a Donald Trump nel 2017 di non uscire dall’accordo di Parigi). È andata a finire che l’estate scorsa dopo mille battaglie Tesla è stata riammessa nell’indice, che apre a un’ampia serie di fondi la facoltà di investire nel titolo.
Ma i guai di Musk vanno ben oltre Tesla. A metà marzo il funambolico imprenditore ha querelato OpenAI, la compagnia dell’intelligenza artificiale generativa che lui stesso aveva contribuito nel 2015 a fondare con Sam Altman, Jeff Bezos, Reid Hoffman e altri Big della Silicon Valley. Motivo della denuncia: OpenAI avrebbe tradito lo spirito iniziale “non profit” concentrandosi su prodotti commerciali. Il che sarebbe anche plausibile, se la verità - sostiene OpenAI che ha controdenunciato Musk - non fosse un’altra: la società ha reso pubbliche delle e-mail del 2018 in cui Musk proponeva di vendere OpenAI a Tesla, se voleva diventare competitiva vendendo (altro che non profit) le app di AI. «L’unico suo fine era che voleva lui il controllo», si legge nella controdenuncia del board. Al rifiuto, avrebbe lasciato sbattendo la porta della società destinata poi a conoscere i trionfi che conosciamo in virtù del finanziamento di Bill Gates che è di due anni successivo. Comunque vada a finire il giudizio, la posizione di Musk è imbarazzante e contribuisce a offuscare la sua immagine. «L’insistente richiesta perché OpenAI apra la sua ricerca e i suoi codici al pubblico, è motivata - ha rivelato pochi giorni fa un servizio della Cnn di Clare Duffy, responsabile per la tecnologia del network - dal fatto che intanto Musk ha creato una sua società di intelligenza artificiale, la XAI, in concorrenza con la stessa OpenAI».
Ovunque passa Musk, il subbuglio è assicurato. Ne sanno qualcosa i 20mila dipendenti di Twitter (metà dell’organico) licenziati in tronco quando Musk ha comprato nell’aprile 2022 il social network per 44 miliardi, pagati in contanti ai precedenti azionisti-fondatori, ridenominandolo “X”. Anche se il numero degli “esuberi” si è ridotto a circa la metà, sono inevitabili gli strascichi giudiziari che sono in pieno svolgimento: il più clamoroso è una class action intrapresa da oltre duemila fra i lavoratori licenziati che accusano Musk di non aver pagato liquidazioni per ben 500 milioni di dollari. Non è finita: in un’altra causa nella lontana Australia, Musk è accusato di non aver pagato nel primo anno di gestione 600mila dollari di affitti e altri servizi infrastrutturali per il social network. Ancora: un gruppo di musicisti sta cercando giustizia e chiede a “X” danni per 250 milioni per presunti “copyright infringement”. Perfino una società di voli charter reclama in giudizio 197mila dollari per aver scarrozzato in lungo e in largo Musk e i suoi manager senza essere pagata. Lo stesso “X” su input del capo ha spronato all’offensiva i suoi avvocati. Ora ha denunciato Meta (Facebook) per il reato di “copycat”: quando ha creato nell’autunno 2023 un simil-Twitter chiamato Threads, Mark Zuckerberg avrebbe rubato al gruppo di Musk «segreti commerciali e altre proprietà intellettuali». Accusa prontamente respinta al mittente: anzi Zuckerberg con una buona dose di astio ha detto che l’«imprevedibilità» di Musk sta allontanando gli investitori pubblicitari da “X”. In effetti il fatturato era calato del 60% a metà dell’anno scorso rispetto alla precedente gestione ma ora si sta riprendendo anche per l’approssimarsi delle elezioni americane che ormai tradizionalmente su Twitter si giocano.
Dallo tsunami legale non è esente l’Italia, dove pure Musk era stato accolto con il tappeto rosso dalla premier Giorgia Meloni al festival di Atreju l’estate scorsa: ora però l’irrequieto imprenditore minaccia di trascinare in tribunale Tim, rea di intralciare i progetti di espansione nel nostro Paese della Starlink, la società del suo gruppo che vende accessi a Internet utilizzando i satelliti lanciati in questi anni da Space-X, che a sua volta è la società celebre per aver spedito i primi turisti spaziali in orbita, nella quale Musk ha investito più di 15 miliardi di dollari che ora vuole far fruttare dopo aver già rischiato la bancarotta un paio di volte. Insomma, un osso duro per Tim (al centro oltretutto del complicatissimo scorporo della rete che diventerebbe statale) che arriva mentre - insieme con Open Fiber - sta procedendo alla (lenta) cablatura del Paese per garantire l’accesso in rete ovunque. Pazientemente il ministro dell’Industria, Adolfo Urso, cerca in questi giorni di organizzare un tavolo di mediazione fra le due aziende. Ma intanto è entrato a gamba tesa l’immancabile Matteo Salvini, che due giorni dopo aver dichiarato di non voler parlare sulla questione (del resto non di sua competenza) ha invece detto che «sarebbe un onore se Musk investisse in Italia». Chissà se sarebbe un onore o una fonte di guai.