Il ricordo
Nessuno potrà regalarci una Sicilia magica come ha fatto Giuseppe Leone con le sue foto
Il grande artista ci lascia a 87 anni dopo una vita di scatti di una poesia unica e collaborazioni con i grandi del nostro tempo
La fotografia italiana perde uno dei suoi protagonisti più apprezzati. Cala inesorabilmente il sipario per Giuseppe Leone, fotografo ragusano di 87 anni. L’amico dei più grandi scrittori del Novecento, l’artista che incarnava la joie de vivre, il frenetico dinamismo artistico, esce di scena con un triste finale di partita beckettiano. Quello che sembrava un lieve malore si è tradotto, nell’arco di poche ore, nell’inevitabile sconfitta.
Leone è stato per tutta la vita un bracconiere di epifanie. Le sue immagini avevano la forza dell’incantamento. Fotogrammi talmente insoliti che sembravano essere il frutto di certi magismi, come operati da quelli che in Sicilia si chiamano magàri, maghi. Quando scompare un fotografo di questa levatura è come se un’intera foresta andasse in fumo. Restano però gli oltre sessanta libri pubblicati con i grandi autori della Letteratura italiana. Scrittori che rispondono al nome di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Salvatore Silvano Nigro, Giuseppe Bonaviri, Gioacchino Lanza Tomasi, solo per citarne alcuni. Lascia un archivio sconfinato. Nel suo studio di Ragusa sono custoditi quasi mezzo milione di scatti. Un giacimento, non del tutto esplorato, che testimonia il radicale cambiamento del paesaggio e del costume. Il ricordo comune dell’artista siciliano è quello di un galantuomo d’antan, testimone di quella generosità e gentilezza d’animo ormai scomparse. Non era certo un uomo avaro di parole e possedeva un raro senso dell’umorismo.
Dai suoi esordi poco più che adolescente, si è prodotto in un lungo e frenetico lavoro di testimonianza. La sua fotografia ha assunto una valenza di indagine sociologica, raccontando l’avvento inesorabile della modernità. Trasformazioni operate dalle dissennate politiche industriali, tanto violente quanto radicali, quelle che hanno segnato la Sicilia metafora dell’Italia. Un sogno di progresso che si è trasformato, nel breve volgere di qualche decennio, in un incubo. Insediamenti industriali che hanno deturpato le coste, l’inurbamento forzato, la famelica speculazione edilizia, l’epocale migrazione di massa. Incubi che rimuoveranno, con una colpevole velocità, la civiltà contadina, la cultura del vicinato, spopoleranno i borghi, le campagne. Leone ha tentato con la sua fedele Leica di trarre a riva i relitti di questo naufragio.
La Sicilia di Leone è il luogo più raccontato, nelle pagine dei libri, nei fotogrammi delle pellicole cinematografiche. Ma le sue storie e i suoi personaggi continueranno ancora a esercitare un fascino particolare. Al lettore che sfoglia i suoi primi libri si dispiega un carosello infinito. Pescatori e scialuppe tirate a riva, spiagge, promontori, strade di campagna popolate da un’umanità di gentile aspetto, luoghi ancora non invasi dai rifiuti e dagli scempi edilizi. Città viste dall’alto che sembrano delineare figure a merletto, strutture urbanistiche che tradiscono un antico ordine spaziale. Muretti a secco delimitano altipiani che sembrano realizzati per l’obiettivo del fotografo, una sorta di rondò visivo che alterna, in battere e levare, bianchi e neri, come in uno spartito musicale visivo. Edicole votive che conferiscono sacralità al paesaggio. Bambini in fila indiana con le loro misere cartelle scolastiche. Cavalcature stanche con i contadini in groppa che agognano il ritorno. Bagli di masserie lastricati da pietre disposte in riquadri, come una scacchiera. Processioni religiose con il prete in stola e occhialini metallici, la banda musicale e i carabinieri con la bandoliera. Fiumare armoniose, non violate dove i bambini fanno il bagno mentre le madri sono intente e lavare i panni. Cavalli al pascolo sotto le fronde di immensi carrubbi. Pastori e greggi. Contadini intabarrati in pesanti pastrani si inerpicano per trazzere tortuose. Antiche necropoli. Uomini e donne che vivono in strada: ciabattini, ricamatrici, contadini, falegnami. Tutti fuori casa a cercare refrigerio nelle assolate estati siciliane. Le sedie in cerchio davanti al circolo nella grande piazza a fare civile conversazione. Suorine che fanno la ruota sorridendo con candida ingenuità. Feste religiose partecipate in un’esplosione di allegria. Confrates incappucciati nelle processioni della settimana Santa. Forse questa sua nostalgitudine fotografica potrà risultare mielosa ma è stata una pagina di letteratura fotografica meravigliosa.
Negli ultimi tempi, quasi a presagire il suo triste finale di partita, aveva intensificato i suoi sforzi. Lasciando tre libri fotografici già impaginati che usciranno nei prossimi mesi. In particolare un lavoro al quale stava lavorando da tempo, un volume dedicato al mondo dell’infanzia. Aveva scelto proprio il tema dei bambini, uno degli aspetti più abusati della storia della fotografia. La sua ultima sfida era stata quella di riproporlo filtrandolo con la sua caratteristica cifra stilistica. Quelli proposti da Leone in questo suo ultimo libro non sono i bambini delle tragedie di Saigon, del Sudan o di Kobane, gli infanti di Leone restituiscono invece nostalgia per il passato e speranza per il futuro.
Il fotografo siciliano già da tempo aveva registrato, senza rassegnarsi, la fine del suo personale universo artistico, in particolar modo la trasformazione profonda subita dal mondo dell’editoria. Gli amici più intimi adesso sono accomunati da un insolito ricordo che assume una particolare luce. Al telefono continuava a ripetere una frase di Leonardo Sciascia, forse l’ultima tragica profezia dello scrittore di Racalmuto: “Voglio morire prima che i libri scompaiano dal mondo”. Prima di chiudere la sua avventura umana ha voluto dunque lasciare come testamento artistico un sogno costituito da tre libri già compiuti, a futura memoria. Per dirla con le parole del suo amato Sciascia: Giuseppe Leone, ovvero un sogno fatto in Sicilia.