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Il caso Yara ci convince che Bossetti è innocente: fino al prossimo true crime
Dopo quattro anni di indagini, 45 udienze, 100 testimoni e tre gradi di giudizio arriva la (bellissima) serie di Gianluca Neri su Netflix e si ricomincia da capo. Perché alla tavola imbandita della cronaca nera è un peccato non continuare a sedersi. Altro che quinto potere, qui ormai siamo al sesto
Perizie genetiche negate, reperti non mostrati, no a nuovi esami, materiale esaurito oppure poco idoneo. E poi oltre alle prove taroccate, il furgone, le fibre del sedile, la presenza del cemento e i kit scaduti alla fine, al quinto episodio si dice chiaro e tondo: il Dna mitrocondriale di Bossetti non c’è. Nell’episodio finale della serie “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio” (Netflix) si ribalta di nuovo la sentenza morale, ancor prima di quella giudiziaria, e con chiarezza appare evidente a ogni telespettatore che nonostante quattro anni di indagini, 45 udienze, 100 testimoni e tre gradi di giudizio, l’assassino condannato all’ergastolo per l’omicidio di una ragazzina di tredici anni alla fine è innocente. Oltre ogni ragionevole dubbio. E sino al prossimo true crime, il sesto potere a cui è difficile sottrarsi.
L’operazione assai complessa di Gianluca Neri è quella di mettere insieme tutto quel che si è detto e scritto e studiato per ridirlo, riscriverlo, ristudiarlo, puntando il dito contro il caso mediatico costruito in questi anni, durante i quali trovare il mostro sulle cui spalle scaricare una coscienza collettiva sembrava essere diventata una missione urgente. Ce lo chiede il pubblico, si dicevano gli autori dei programmi. Da “Porta a Porta” ai “Fatti vostri”, da Enrico Mentana a Licia Colò, da Roberta Bruzzone a Corrado Augias, fino a Luca Telese (molto Luca Telese), innocentisti e cinture nere di gogna in un flusso continuo capace di macinare ascolti senza sosta. E ogni racconto aveva la sua validità visiva, come un gigantesco social in cui chiunque poteva puntare il dito senza tema di smentita.
Ma il cambio di verso è facile. Una lacrima inaspettata o un sorriso in un momento tragico stravolge la storia, cambia la luce, da buona a cattiva e viceversa. E si può ricominciare.
Così nella serie Bossetti volteggia in un abbraccio con la moglie nel filmino delle nozze e si intreccia furbamente con Yara, che volteggia anche lei, in un frammento di una gara. E le telecamere di questo lavoro a dir poco accurato, perché Neri la ricostruzione per immagini la sa fare sul serio, indugiano sull’uomo elegante, composto e devastato, che per la prima volta rilascia un’intervista, fatta di sguardi, appelli, mani strette sulle sbarre, mentre i violini diventano gravi.
Come un Giano a cui due fronti non bastano, “Il caso Yara” riaccende dopo quattordici anni i motori di quegli stessi media che sono stati sotto processo per tutta la durata dell’avvincente serie. Perché la cronaca nera è un fiero pasto a cui tutti possono attingere. Ma quel che rimane dopo l’immane lavoro dell’autore di “SanPa” è che a quella tavola imbandita è sempre un peccato non continuare a sedersi.
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DA GUARDARE
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MA ANCHE NO
Non è uno show, né un talent, è più un game, ma non si vince un bel nulla. Il nuovo programma di Pino Insegno, previsto per gennaio, si chiamerà “Il buono, il brutto e il cattivo”. È stato annunciato alla presentazione dei palinsesti 2024-2025 con una definizione ben precisa: «Sfida goliardica». E per la pelle d’oca pazienza.