La miniserie su Netflix con Eduardo Scarpetta e una gigantesca Vanessa Scalera, racconta che il vero legame non è dato solo dal sangue

Tutte le famiglie felici sono uguali ma fino a un certo punto. Ci sono anche quelle felici a modo loro, persino quando un giovane padre sta per morire e organizza nel dettaglio il dopo di lui col sorriso sulle labbra. Detto così sembra la trama di un polpettone da cui scappare a gambe levate e a tratti inevitabilmente lo è, ma a volte persino la serialità made in Italy con queste zuccherose premesse riserva delle sorprese. È il caso appunto di “Storia della mia famiglia”, dramedy, su Netflix, scritto da Filippo Gravino (già manina di “Acab”) che riunisce un gruppo di interpreti capaci di integrarsi tra loro ricostruendo quelle dinamiche particolari che si ritrovano solo quando ognuno si riconosce nell’altro sapendo di poterci contare. 

 

Così si crea quello strano miscuglio di complicità e fastidio, amore pazzo e sarcasmo, dedizione e cinismo, in cui la tradizionale definizione del legame di sangue in senso stretto perde la sua unicità. E diventa davvero famiglia. 

 

Il motore della storia è Eduardo Scarpetta, talento che sta sgomitando assai bene per trovare a buon diritto il suo posto in prima fila, che è malato, malatissimo. Ma vive sino all’ultimo secondo con l’entusiasmo smodato di chi ha poco tempo per pensare a quel che sarà dopo di te, come cantava Baglioni. E si guarda all’indietro, a ciò che è stato costruito con la pazienza della relazione, e che gli ha permesso di mettere in piedi una buffa famiglia sgangherata, fatta di parenti e di amici, inevitabilmente fallibili ma solidamente presenti. Così scorre il tempo, in attesa della fine annunciata, e si guarda avanti, aspettando la ricostruzione di un equilibrio che traballa, come un tavolo a cui manca una gamba. 

 

Elaborazione del lutto, intrecci amorosi e comprensione di sé si alternano in sei episodi in cui il tema universale viene affrontato riportandolo al singolo particolare, all’esperienza di tutti i giorni, ognuno dei quali passa a fatica quando il peso dell’abbandono si fa sentire. 

 

A volte funziona persino, al punto che si passa quasi sopra alle inevitabili cadute nell’universo dell’improbabile, facce stupefatte di Massimiliano Caiazzo comprese. E si accolgono di buon grado le tracce di ironia messe al posto giusto per contenere la paura di fronte a un terreno che vibra troppo e sotto ai piedi rimarrà ancora per poco. 

 

Perché a tenere stretto tutto questo piccolo castello seriale, c’è l’attrice gioiello dei nostri giorni televisivi, ovvero Vanessa Scalera, che si regala nei panni di una nonna accudente suo malgrado, di una madre che forse non lo è stata abbastanza e di una donna che non ha alcuna intenzione di rinunciare a se stessa. E alla fine, proprio non facendolo, tutto si tiene.

 

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DA GUARDARE 

Sanremo 1 – Un Festival straordinario, sacrosanta la vittoria, meritati gli ascolti, immaginifica la conduzione e superlativo il brano in cui le madri diventano piccole. E chi ha osato dire il contrario è un giornalista venduto, di sinistra e rosicone, che si permette addirittura di esercitare il libero diritto di critica. Vergogna.

 

MA ANCHE NO

Sanremo 2 – Di tutto il marasma  quello che dovrebbe davvero restare nella memoria collettiva a lungo, è la lettera che Pierluigi Diaco ha sentito di dover scrivere a Fedez. E che con voce commossa ha pensato bene di darne lettura in diretta a “Bella Mà”. Momenti di televisione educativa altissimi, a dir poco vertiginosi.