In Ucraina, il terzo anniversario dall’invasione russa è stato molto diverso dai precedenti. Nessuno ha parlato di vittoria, i combattimenti al fronte sono rimasti sullo sfondo e una grande ombra ha oscurato la bella giornata di sole invernale che splendeva sopra Kiev. «Presidente Donald Trump, vorremmo davvero sapere da lei, perché tutto il nostro popolo è molto preoccupato: l’America sarà ancora al nostro fianco?». Questo dubbio, espresso chiaramente dalla domanda di Volodymyr Zelensky al capo di Stato Usa durante l’Assemblea del G7, per l’Ucraina porta il sospetto di una condanna.
Da quando gli Stati Uniti hanno avviato la riapertura delle relazioni diplomatiche con la Russia, Trump e i suoi fedelissimi hanno fatto di tutto per screditare il presidente ucraino. «Non è stato eletto», è la frase che il megafono del tycoon, Elon Musk, scrive su X ogni volta che si tratta dell’argomento. «Ha solo il 4 per cento di popolarità, nel suo Paese nessuno lo vuole». Ma prima di estrometterlo dall’agone politico, da Oltreoceano vogliono che Zelensky firmi l’accordo sui metalli e sulle terre rare che stabilirà, nero su bianco, i diritti di sfruttamento del ricchissimo sottosuolo ucraino per le aziende statunitensi. La prima bozza del memorandum era stata definita dai media l’equivalente della «colonizzazione economica dell’Ucraina da parte degli Stati Uniti, in perpetuo», in quanto l’onere di riparazione non sarà mai raggiunto.
Nella conferenza stampa di fronte ai giornalisti internazionali, alla vigilia dell’anniversario, Zelensky e il suo governo hanno insistito per ore sul fatto che il presunto debito di 500 miliardi di dollari – cifra che per Trump equivale alle forniture Usa inviate in questi tre anni – semplicemente non esiste: «Non posso riconoscere come prestito ciò che ci è stato dato come sovvenzione». Dalla Casa Bianca hanno invitato Kiev a firmare, altrimenti ci saranno non meglio specificati «problemi». Ma Zelensky è addirittura disposto ad accettare questa capitolazione economica, a patto che gli Usa forniscano adeguate garanzie di sicurezza. Trump ha ribadito che di invitare l’Ucraina nella Nato non se ne parla nemmeno e ha chiuso la porta a ogni rivendicazione dell’(ex?) alleato.
Un ostacolo, è così che Washington ormai descrive il capo di Stato ucraino. Un intoppo sulla via ritrovata delle relazioni commerciali con Mosca e del prestigio che deriverà dall’avere fatto da arbitro e pacificatore in un conflitto sanguinoso che dura da tre anni. Ma Kiev non è l’unico problema per l’amministrazione di Trump.
L’Unione europea, dopo lo shock iniziale, sta cercando di correre ai ripari, seppure in modo tardivo e ancora confuso. Il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Keir Starmer sono partiti insieme per la Casa Bianca al fine di convincere “The Donald” che non è possibile tenere fuori l’Europa dalle trattative per la tregua in Ucraina, come invece i falchi repubblicani continuano a ripetere dall’incontro di Riad. Il piano di Macron prevede l’invio di 30 mila soldati europei in Ucraina come contingente di pace, da non schierare in prima linea per evitare incidenti. Trump si è detto d’accordo e poco dopo anche Vladimir Putin.
Ma, dato che i Paesi europei hanno speso di più degli Usa per l’Ucraina e prevedono di stanziare ancora diversi miliardi di euro, com’è possibile che siamo costretti ad alzare ulteriormente la posta e a inviare i nostri militari, «boots on the ground», per poter accedere a un tavolo negoziale dove dovremmo essere protagonisti a prescindere? La risposta, in queste settimane, si può leggere tra le innumerevoli analisi che trattano la mancanza di un ruolo specifico per l’Ue e la crisi del modello comunitario continentale. Senza contare come la soluzione che diversi politici del Vecchio Continente hanno individuato, a partire dal neoeletto cancelliere tedesco Friedrich Merz, sia spendere molto di più per la Difesa. Invece d’imporre una via che provi a impedire il riproporsi di crisi come quella ucraina, Bruxelles si adegua ai venti di guerra che soffiano impetuosi sul mondo. E se si tratta solo di potenza militare, è ovvio che Stati Uniti e governi autoritari vari finiranno per avere sempre un vantaggio sulla frammentata Europa, dove fino a oggi la Nato si è occupata di tutto.
Una politica sicura della propria forza sarebbe capace di alzare la voce, mentre quella europea si è già divisa su Trump e Ucraina. Da un lato, i Paesi baltici e nordici – che, non a caso, il 24 febbraio scorso erano a Kiev – temono per l’allargamento del conflitto e finanziano l’Ucraina lautamente; dall’altro lato, Ungheria, Slovacchia e i partiti di estrema destra di tutta Europa vedono in Putin un faro da seguire. Nel mezzo, i tentativi di Londra e Parigi di federare un continente diviso per interessi e visione politica. L’Italia resta in imbarazzato silenzio: Giorgia Meloni non vuole rinunciare alle simpatie di Trump, ma al contempo non può disconoscere due anni di politica filoucraina. Infatti, la premier ha fatto sua la retorica del tycoon sul «numero inaccettabile di morti», pur ribadendo che è stata la Russia ad aggredire.
Neanche questo assunto è ormai più scontato. All’ultima Assemblea generale dell’Onu la risoluzione presentata da Kiev e dai Paesi Ue sull’integrità territoriale dell’Ucraina e la condanna dell’invasione russa non è stata votata da Washington. È passata con 93 voti favorevoli (Cina e Iran si sono astenuti), ma tra i contrari si denota un gruppo assai eterogeneo che comprende, tra gli altri, Usa, Israele e Ungheria assieme a Russia, Bielorussia e Corea del Nord. Se siamo di fronte ai nuovi blocchi di potere globale, il futuro appare tutt’altro che pacifico.