È un'eccezione felice quanto conturbante, nella vasta letteratura sull'Olocausto, il romanzo 'Un viaggio' di H.G. Adler. Qui l'esperienza del lager si trasforma in stile, travalicando rancore e amarezza

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Nella fin troppo vasta letteratura sull'Olocausto - fra memorie, diari, ricostruzioni e saggi - sorprende il romanzo 'Un viaggio' di H. G. Adler (traduzione di Marina Pugliano e Julia Rader, Fazi, pp. 383, e 19,50), e sorprende perché, fuori dal solito schema narrativo, che rintraccia in Primo Levi l'originale e finora mai raggiunto modello di equilibrio tra grandezza letteraria e denuncia storica, il libro di Adler rappresenta un'eccezione tanto felice quanto conturbante. Il viaggio a cui il titolo allude è quello a cui un segmento di umanità partecipò suo malgrado, negli anni Quaranta del secolo scorso, costretto a spostarsi fra località dai nomi irrevocabilmente sinistri, Theresienstadt, Auschwitz, Niederorschel, infine Langenstein-Zwieberge: e il 13 aprile 1945 il viaggio cessa qui per l'autore, dopo aver perso, lungo le varie tappe, le persone più care. Adler a quel punto va a vivere a Londra, dove dedica allo sterminio degli ebrei saggi e riflessioni, scrivendo poi una manciata di romanzi, fra cui questo che si merita il plauso di Elias Canetti e di Harold Bloom. Considerato un capolavoro, 'Un viaggio' viene poi dimenticato: va quindi lodato l'editore che lo propone per la prima volta nella nostra lingua. Ho detto prima che si tratta di un libro conturbante. Lo è perché l'esperienza del lager trova in queste pagine la forma più stupefacente: si trasforma in stile, travalicando rancore e amarezza, come nota Canetti, e apparentando l'opera alle punte estreme dell'avanguardia letteraria novecentesca di lingua inglese, da Virginia Woolf a James Joyce.