Ad Avellino si scontreranno al ballottaggio gli uomini-ombra dei due vecchi ras democristiani: uno con l'Udc, l'altro con il Pd. Ma i partiti c'entrano poco e le idee ancora meno: è una battaglia di potere tutta fatta di clientele e scambi

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L'ultimo atto della battaglia si consumerà il 9 e 10 giugno. Quando la città di Avellino andrà al ballottaggio per scegliere il nuovo sindaco. I candidati sono Paolo Foti del centrosinistra e Costantino Preziosi dell'Udc. Nomi poco noti fuori dalla Campania, ma si tratta degli uomini ombra dei due ras Nicola Mancino e Ciriaco De Mita.

Già, perché in Irpinia la politica è ferma al tempo della Prima Repubblica e tutto si muove sul filo di equilibri creati e gestiti dai due longevi leadeome il Movimento Cinque Stelle è stato risucchiato nel tritacarne del consenso bloccato.

Al primo turno ad Avellino si sono fronteggiati nove candidati sindaci e seicento aspiranti consiglieri comunali. Ma nella gran parte dei casi sono stati dei flop, come il magro 16 per cento raccolto da Nicola Battista del centrodestra. Quanto al M5S, la candidata Tiziana Guidi ha incassato solo il 5,7 per cento, mentre la lista del Movimento addirittura il 3. E' stato il peggiore risultato dei grillini nei capoluoghi andati al voto.

Tutti gli avversari comunque si sono rivelati troppo deboli per competere contro gli agguerritissimi Mancino e De Mita e le loro rispettive squadre di pretoriani. Il primo round è finito con un leggero vantaggio di Foti su Preziosi (25 per cento a 23) e un pareggio sui voti incamerati dalle liste collegate (27 per cento ciascuno).

La vittoria al ballottaggio sarà campale per uno dei due ottaugenari leader (De Mita ha compiuto 85 anni il 2 febbraio, Mancino ne compirà 82 ad ottobre) perché rischia di segnare il tramonto di un potere politico locale lungo oltre mezzo secolo. Un potere in grado di determinare gli equilibri nella ragnatela avellinese di enti di servizio, società partecipate, fondazioni, consigli di amministrazione. Da qui si spiegano le performance elettorali del voto nella città capoluogo e l'incapacità di un vero ricambio generazionale al timone del Comune.

Il valore simbolico della sfida è elevatissimo. Mancino e De Mita da sempre si ripartiscono la mappa del consenso in Irpinia: all'ex presidente del Csm il capoluogo e l'hinterland, all'ex presidente del Consiglio il feudo dell'Alta Irpinia, zona meridionale della provincia avellinese. L'equilibrio si è spezzato nel 2008 quando De Mita, che era ancora in Parlamento, aderì al Pd. Poi però Veltroni gli impedì la ricandidatura al Senato, preferendogli una sua ex allieva Pina Picierno da Caserta, nota peraltro per aver scritto la tesi di laurea sproprio su Ciriaco.

Uno smacco inaccettabile per l'ex leader democristiano, che abbandonò con i fedelissimi il Pd per aderire all'Udc di Casini. Fu una dichiarazione di guerra.

Da allora l'imperativo di De Mita è quello di abbattere il potere dei manciniani in Irpinia. Il primo atto fu nel 2009, alle provinciali, l'alleanza con il Pdl, rivelatasi vittoriosa. Di pari passo si muovevano le battaglie per ottenere le maggioranze nelle assemblee e nei cda della pletora di enti di servizio irpini: Piani di Zona, Consorzi, Comunità Montane. Uno scontro sanguinoso che si è protratto sino alla madre di tutte le sfide: l'elezione del nuovo sindaco di Avellino.

De Mita ha annusato la possibilità del colpo grosso in un 2013 che gli ha consegnato i segnali politici preoccupanti. Alla Provincia di Avellino c'è aria di crisi con il Pdl, in Regione Campania una rottura profonda con il governatore Caldoro che pare intenzionato ad andare avanti anche senza i consiglieri demitiani arrabbiati per i rimpasti in giunta che li tagliano fuori dai giochi. Certo, al Parlamento è stato eletto il nipote Giuseppe ma l'Udc ha quasi dimezzato i voti in Irpinia: da 20mila a 12mila e il partito non naviga in buone acque in Campania. Ecco perché De Mita vuol accaparrarsi ad ogni costo il Comune di Avellino. E il paradosso vuole che per vincere dovrà chiedere una mano ai berlusconiani con i quali non corre più buon sangue. In caso di successo, sarà costretto a cedere pezzi di potere per incassare il loro consenso, andandosi ulteriormente ad indebolire nel contesto provinciale e forse anche regionale.

Nicola Mancino invece è, politicamente parlando, un po' alla canna del gas. Le udienze sulla trattativa Stato-Mafia lo stanno impantanando in un processo dal quale sta provando a tirarsi fuori in ogni modo. E' rimasto nel Pd, con tutti i suoi uomini, ma il suo delfino Enzo De Luca, candidato al Senato tra i democratici, non è stato eletto. Mancino sa bene che perdere oggi Avellino significa uscire definitivamente fuori dai giochi.

La candidatura a sindaco del suo uomo Foti è stata imposta senza essere sottoposta alle primarie. «Troppo rischiose perché Foti è un uomo della società civile», secondo gli uomini dell'ex presidente del Senato, che si è impegnato in prima persona a convincere i democratici di Avellino sulla bontà del progetto elettorale. «Nonostante quello che sta passando a Palermo, si è dato da fare tantissimo per la vittoria del centrosinistra», dice un fedelissimo di Mancino, «per lui questa è una delle sfide più importanti della sua carriera politica».