Se il calcio delude, ci si può consolare con l'andamento del made in Italy. Che nel Paese è ancora sinonimo di bellezza e qualità. Per merito anche (ma non solo) della cospicua comunità italiana

brasile, moda, shopping, acquisti, abbigliamento
Eliminati precocemente sui campi di calcio. Ma, se ci può consolare, c’è un’altra Italia che vince in Brasile. Nel Mondiale della grande industria e della piccola e media impresa. In quello dell’eleganza e del buon gusto. Perfino del fascino maschile, come ha rivelato l’inchiesta dell’istituto di sondaggi Ashley-Madison.com che misura i tassi di infedeltà nel pianeta: per le brasiliane sono gli azzurri, pur evanescenti nel gioco, gli amanti ideali fra i calciatori delle 32 rappresentative della Coppa.

Il made in Italy è considerato sinonimo di qualità e bellezza. Un’immagine che prevale sulle miserie della politica e sulla crisi dell’economia. E stinge un po’ la delusione nel football della foltissima comunità italiana, 25 milioni distribuiti in tre generazioni (il più grande fra i nostri poli di emigrazione e la più grossa minoranza del Brasile).

Internazionale
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8/7/2014
Il tifo degli italo-brasiliani per gli azzurri non ha fatto neanche in tempo a scaldare i motori. E si è poi subito incanalato verso la patria di adozione. Anche perché i flussi di emigrazione più importanti risalgono al secolo scorso e molti connazionali che qui non hanno mai conosciuto le asprezze dei ghetti si sono perfettamente integrati nella nuova realtà finendo per sentirsi più brasiliani che italiani. Avevano ascendenti italiani tre dei presidenti del Brasile. Guido Mantega, l’attuale ministro delle Finanze, è nato a Genova. Al di là delle singole origini, nel tempo le radici prevalentemente latine hanno cementato una corrente di sintonia fra i due popoli. I brasiliani stravedono per i nostri prodotti e, se non ci incrociamo con la loro Nazionale, simpatizzano anche per i nostri colori calcistici. Come è avvenuto a Manaus durante l’incontro di esordio vinto dagli azzurri contro l’Inghilterra.

Alla vigilia del Mondiale “Comunità italiana”, una rivista di Rio che da vent’anni fa da ponte con il Brasile, ha confrontato le due più importanti culture calcistiche (nove Coppe del Mondo complessivamente, cinque per il Brasile, quattro per l’Italia) ripescando nell’inserto culturale un saggio di Pier Paolo Pasolini, grande appassionato di football e lui stesso calciatore dilettante. E’ un articolo pubblicato su “Il Giorno” nel 1971, che esalta il talento dei brasiliani distinguendo fra calcio in prosa (quello europeo) e quello in poesia (quello latino americano). “Chi sono”, si chiede lo scrittore, “i migliori ‘dribblatori del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal”. Ma oggi i punti di contaminazione sono infiniti. Molti dei loro più celebrati campioni hanno giocato nel nostro campionato. Il loro tecnico, Luiz Felipe Scolari, ha origini venete. Prosa e poesia si mescolano nel frullatore della globalizzazione.

Fuori dal calcio, l’influenza dell’Italia sul Brasile rimane forte nei più svariati settori. Come registra puntualmente “Comunità italiana”. “Ho fondato questa rivista quando avevo solo 19 anni”, racconta Pietro Petraglia, editore e direttore del mensile scritto in italiano e portoghese (40 mila copie di tiratura), nato a Rio e con origini salernitane. “Fin dall’università sentivo l’esigenza di amalgamare le due realtà in cui ero cresciuto. Negli anni Novanta non c’erano già più giornali italiani. Era morto anche il glorioso ‘Fanfulla’ di San Paolo, molto diffuso fra i primi emigranti. Oggi ci sforziamo di illustrare i traguardi realizzati dai nostri imprenditori di punta e le opportunità di inserimento per gli italiani che vogliono approfittare del dinamismo dell’economia brasiliana. Mettendo in luce i vantaggi di un mercato in costante crescita ma senza nascondere le trappole di una burocrazia ancora ostica. Il Brasile ha trovato la ricchezza prima dello sviluppo”.

Petraglia ha cercato di privilegiare l’approfondimento, mettendo al suo fianco intellettuali di spessore come Marco Lucchesi, uno studioso di origini toscane che parla correntemente 17 lingue ed è membro della prestigiosa Accademia brasiliana delle lettere. Per l’inserto culturale, si avvale della collaborazione del Dipartimento di linguistica dell’Università romana di Tor Vergata. “Grazie a questi apporti”, dice Petraglia, “è stato più facile far crescere l’interesse del Brasile per il nostro paese. Si può dire che oggi la valorizzazione dell’italianità è un obiettivo centrato”.

La collezione della rivista è la galleria di un percorso di sinergie, che non è stato messo in discussione nemmeno durante la crisi politico-diplomatica scaturita dal caso di Cesare Battisti (lo scrittore ex terrorista di cui l’Italia ha chiesto invano l’estradizione). Qui la familiarità con i nostri marchi è tale che se il discorso cade sulla Fiat o sulla Tim può capitare che un interlocutore brasiliano poco informato le riconosca come ditte di casa e non di importazione.

La Fiat, che sta per aprire un nuovo stabilimento a Suape (vicino a Recife) dopo quello di Belo Horizonte, è leader sul mercato nazionale. La Tim è il principale operatore di telefonia mobile con quasi 65 milioni di utenti (su una popolazione globale di 200). Manager italiani di nascita ma perfettamente inseriti nella realtà produttiva del Brasile, come Andrea Girasole, vicepresidente esecutivo della Tim, o Paolo Dal Pino, responsabile della Pirelli (che ha appena festeggiato 85 anni di attività in Brasile), sono sempre al centro della cronaca economico-finanziaria.

Per la grande industria l’Italia è all’avanguardia anche nell’energia. Con l’Enel che attraverso le sue controllate gestisce un progetto pilota nello stato di Bahia. E l’Eni che con la Saipem è al fianco della Petrobras nella ricerca petrolifera. Nell’industria aerospaziale un posto di rilievo si è ritagliato Telespazio che importa dall’Italia satelliti.

Così l’Augusta che ha imposto sul mercato brasiliano i suoi elicotteri. Fortemente competitivi siamo nella siderurgia (con i gruppi Techint, Danieli e Marcegaglia) e nella nautica da diporto (Azimut Benetti a Santa Catarina, Ferretti a San Paolo, Cranchi a Manaus). In aumento, con lo sviluppo di numerose piccole e medie imprese, la presenza nell’industria del mobile, nei prodotti per la difesa, nelle infrastrutture portuali e nella cantieristica. “La nostra economia”, ha riconosciuto in una recente intervista Luiz Fernando de Souza, il governatore di Rio più conosciuto come Pezao, “è cresciuta anche grazie alle imprese italiane. Che nei due mandati del mio predecessore Sergio Cabral hanno investito 500 milioni di euro solo nel nostro Stato”.

L’italianità è poi diventata quasi una seconda pelle per chi ama il buon gusto. Soprattutto nell’abbigliamento, nel design e nella gastronomia. Nell’alta moda il governo di Roma sta chiedendo a quello di Brasilia uno sconto sulle tasse di importazione, per agevolare la penetrazione nel mercato brasiliano delle ditte italiane specializzate nelle confezioni di lusso.

Nel settore alimentare la Barilla produce direttamente la pasta nella fabbrica di San Paolo, la megalopoli dove si concentra il maggior numero di italiani (circa dieci milioni sparsi in tutti gli angoli dello Stato) e dove il conte Francesco Matarazzo all’inizio del secolo scorso costruì un’autentica fortuna gestendo prima come banchiere le risorse degli emigranti e sviluppando poi un piccolo impero industriale. Pure la Campari ha un centro di produzione a San Paolo. La Ferrero (presieduta dall’ex ambasciatore Francesco Paolo Fulci), popolarissima per la Nutella e considerata per il Reputation Institute il marchio più affidabile del mondo prima dell’Ikea e della Johnson & Johnson, ha costruito la sua fabbrica a Pocos de Caldas (Minas Gerais) su un terreno propizio per la coltivazione degli ingredienti usati nell’industria dolciaria. Anche una nota marca di biscotti e altri prodotti alimentari, la Piraqué, era stata fondata da un italiano: Celso Colombo, scomparso nel 2001.

Oscar Farinetti ha annunciato, infine, l’apertura entro il 2014 di una succursale di Eataly a San Paolo dove i brasiliani avevano già bruciato i tempi con Eat, un tentativo di imitazione del nostro complesso gastronomico.

Gli italiani non hanno nemmeno trascurato il filone del caffè dove nella produzione il Brasile è un leader mondiale. La sfida è quella di allargare la gamma del sapore, qui limitato al modesto cafesinho. Affermando la qualità del nostro espresso e la varietà delle proposte (dal ristretto al cappuccino doc, dal moccaccino al marocchino) comuni nei menù dei nostri bar e organizzando corsi per baristi. Un gruppo di imprenditori capitanati da Andrea Illy (che va di persona in Amazzonia a scegliersi le miscele migliori) e Rodolfo Teichner (Lavazza) è in prima linea per imporre la fantasia e la raffinatezza della nostra tradizione. “Far vincere l’espresso nella patria del caffè”, sorride Petraglia, “varrebbe quanto la conquista della Coppa del Mondo”.