Il 18 settembre si vota per l'indipendenza. Una consultazione terremoto non solo per Londra ?ma per tutta l’Europa. Rapporto da un Paese diviso in due

A sinistra il primo ministro scozzese Alex Salmond

Irvine Welsh tira in ballo il sesso e dice che il referendum è «un’esperienza carnale, un po’ come perdere la verginità». Per l’indipendenza della Scozia «ci si esprimerà come fosse la “prima volta”, nervosi e impauriti, ma alla fine sarà bellissimo...». Lo scrittore scozzese, autore di “Trainspotting”, non vota perché ormai residente tra Chicago e Miami, ma in agosto, prendendo come scusa il Festival di Edimburgo, si è improvvisato sponsor della campagna per il Sì. Sia pur ardita, la metafora ha indubbiamente senso. L’appuntamento del 18 settembre, una consultazione che rischia di far saltare non solo il Regno Unito ma l’intera Europa, tocca il cuore e la pancia di molti scozzesi più ancora che la testa e il portafoglio. Vedono la vittoria di “Yes Scotland”, al momento ancora improbabile, come un risarcimento ai 307 anni di sottomissione.

La campagna per il No e il cartellone di tutti i principali partiti chiamato “Better Together” (Meglio assieme) hanno un grande sostegno dell’establishment londinese e dei media tradizionali e si sono accontentati del basso profilo.

Fino al secondo dibattito televisivo tra l’indipendentista Alex Salmond e il principale avversario Alistair Darling, quando il trionfo del primo ha cambiato le carte in tavola dando la sveglia a conservatori, laburisti e liberaldemocratici, anche perché nei sondaggi il fronte “Yes” si è avvicinato (47 contro 53 per cento) quasi dimezzando lo svantaggio. A due settimane dal voto la tensione è improvvisamente salita, con intemperanze e episodi di intolleranza poco british. Jim Murphy, deputato unionista, si è preso un uovo in faccia da un secessionista e ha deciso di interrompere la campagna.

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Durante dei tafferugli a Glasgow, una donna incinta è stata aggredita da un sostenitore del No. A Inverness, cittadina delle Highlands letteralmente tappezzata di piccoli manifesti blu con la scritta bianca “Yes” e dove il vero mostro non è più Loch Ness bensì Westminster (il parlamento di Londra), lunedì 1 settembre due deputati del No hanno rinunciato all’ultimo momento a un dibattito con due deputati del fronte opposto nella circoscrizione di Kirkhill. «Ce lo hanno comunicato il giorno prima, quando tutto era ormai organizzato», si lamenta un militante nel piccolo quartier generale tirato su in giugno a Union Street.
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E pensare che tutto era partito abbastanza in sordina. A Westminster davano per scontato l’esito del referendum e gli stessi laburisti, che con i governi Blair e Brown (entrambi di origini scozzese) avevano favorito la devoluzione e la nascita del parlamento locale, forse provavano un po’ di imbarazzo. La Scozia vota per tradizione il partito guidato oggi da Ed Miliband, è sempre stata a sinistra, e la battuta più diffusa ricorda che ci sono più panda allo zoo di Edimburgo (due) che deputati conservatori al parlamento scozzese (uno).

Il referendum e il partito che lo ispira sono due animali strani. Cominciamo dal primo, organizzato con le regole del parlamento di Edimburgo. Possono votare anche i sedicenni (alle elezioni bisogna invece avere almeno 18 anni), possono votare gli stranieri residenti in Scozia, circa 400 mila, ma non gli scozzesi residenti altrove, Inghilterra inclusa, circa 800 mila. A un gazebo “Yes Scotland” di Aberdeen incontriamo un gruppetto “straniero” che fa propaganda o raccoglie materiale per l’indipendenza. Alberto Mori, 25 anni, italiano e studente di antropologia, vota sì perché in Scozia le università sono buone e gratuite e non carissime come quelle inglesi.
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Al suo fianco Harry Naio, 21 anni, padre italiano e madre scozzese, studente di scienze politiche e cameriere in un noto ristorante del porto, vota sì perché è contro il nucleare, le guerre fatte in Iraq e in Afghanistan e tutto quello che è seguito al thatcherismo: «Mia madre e mia sorella di 19 anni votano invece No perché dicono di sentire l’identità britannica». Il terzo è Christian Allard, 50 anni, deputato del Snp, il partito nazionalista scozzese di Salmond. Ha origini francesi, di Digione, ma vive qui da 30 anni e accusa Londra di aver creato disuguaglianze insostenibili. «Aberdeen è la seconda città più ricca del Regno Unito, ma qui esistono 35 banchi alimentari, dove i poveri vanno a procurarsi il cibo».

Se il referendum è anomalo, l’Snp che lo ha promosso appare altrettanto singolare nel panorama politico europeo. Il partito nazionalista nacque negli anni Trenta con inclinazioni di destra, quasi fasciste, nei decenni successivi ha avuto varie trasformazioni, per finire oggi alla sinistra dei laburisti. Chiede giustizia sociale, solidarietà, migliore welfare, si batte contro le privatizzazioni, non vuole né guerra né nucleare. Poi c’è il lato “Braveheart”, il cuore impavido, l’identità e la coscienza di essere scozzesi, l’ostilità nei confronti della City di Londra. «Mi rendo conto sia difficile definire questo partito», dice il politologo John Curtice dell’Università di Strathclyde, spesso chiamato in televisione a commentare i sondaggi, «perché non ne esistono di simili in Europa, forse un po’ i catalani. Direi che si tratta di un partito nazionale civico con due anime che convivono, una principale più socialdemocratica e una più nazionalista. La sua caratteristica è quella di riuscire a raggiungere diversi strati della popolazione, piace a quelli di sinistra delusi dai laburisti, ma anche al ceto medio di commercianti e artigiani».

Il grande condottiero è Alex Salmond, 60 anni il prossimo San Silvestro, primo ministro di Scozia con il secondo mandato, dopo aver ottenuto la maggioranza assoluta nel 2011 spodestando i laburisti in modo clamoroso. Il primo impiego dopo la laurea in economia lo ottenne alla Royal Bank of Scotland per fare studi sul petrolio, materia che diventa cruciale nel referendum, come vedremo più avanti. Da sempre nazionali?sta, venne in realtà espulso dal Snp alla fine degli anni Settanta perché troppo a sinistra, successivamente fu riammesso e anzi ne conquistò la guida nel 1990 tenendola sostanzialmente fino a oggi. Nel 1997 diede un contributo decisivo nel far vincere il Sì alla devoluzione della Scozia favorita dal governo Blair, contro il quale si schierò duramente sulla guerra in Iraq.

Piace perché parla chiaro e dice cose che molti scozzesi vogliono sentirsi dire per tirar fuori rabbia e orgoglio. È spregiudicato, ha anche lui qualche scheletro nell’armadio, tipo uno scandalo rivelato da un giornale nel 2009, secondo cui avrebbe effettuato spese in acquisti e ristoranti fino a 400 sterline al mese senza presentare le ricevute al Parlamento.

Grazie al carisma riesce a portare nelle piazze migliaia di volontari. Il confronto di mobilitazione con gli avversari di “Better Together” è palpabile sabato 30 agosto allo Haymarket, una delle stazioni di Edimburgo. Alle dieci di mattina, in una giornata di sole abbastanza straordinaria (ma sarebbe capitato anche in caso di pioggia), arrivano una ventina di militanti di “Yes Scotland”. Breve riunione per le istruzioni, foto di gruppo e via con il volantinaggio e la caccia al consenso. Pochi metri più in là tre unionisti hanno appena preparato un banchetto e appeso uno striscione: “Vote no in 2014”. Rapporto di sette a uno, anche se poi il 18 sarà magari l’uno a vincere. Sheena Cleland ha 47 anni e fa la traduttrice al parlamento scozzese: «Vogliamo comandare a casa nostra, a Westminster non ci sentiamo rappresentati e se fossimo indipendenti avremmo più opportunità di lavoro, ci sarebbero fino a 27 mila posti in più». Dall’altra parte parla Bill Scott, 74 anni, pensionato dopo una vita di lavoro all’Unilever. «Sono contro perché è un salto nel buio. E, a proposito di Salmond, vorrei ricordare che lui era fino a ieri contro la Nato mentre oggi ha cambiato idea...».

La paura e l’incertezza economica futura sono i principali punti di forza di chi combatte la secessione. Secondo i sondaggi, donne e anziani voteranno in maggioranza No. «Il voto femminile», commenta Curtice, «è legato alle incertezze che l’indipendenza può creare nei conti pubblici e familiari, quello degli anziani ha due motivazioni, una di cuore e cioè l’identità britannica, e l’altra di portafoglio perché preoccupa il futuro delle pensioni». Il voto giovanile sembra invece orientato al Sì perché si ritiene ci siano più prospettive di lavoro con una Scozia indipendente. Sono infatti i temi economici, oltre a quelli identitari, a condurre la campagna elettorale. Welfare, entrate petrolifere e moneta. La battaglia più accesa è quella contro la privatizzazione della sanità portata avanti dal governo Cameron. Salmond e compagni puntano a un welfare pubblico di tipo scandinavo, anche se non è ancora chiaro con quali soldi potrebbero finanziarlo, visto che il rapporto tra il deficit e Pil scozzese è peggiore di quello greco e che le uniche nuove tasse previste sono quelle sulle grandi corporation. Con il rischio, tra l’altro, che queste ultime se ne scappino a Londra.

L’asso nella manica è così il petrolio nel mare del Nord che, come dimostra la cartina a pagina 61, è prevalentemente in area scozzese. Il Condottiero, eletto nell’Aberdeenshire, conosce bene la materia e si destreggia tra i numeri con una certa grinta. Da qualche giorno è in corso proprio una guerra di cifre. Quanti barili di oro nero restano nei fondali da qui in avanti? Trenta miliardi, dice Salmond. No, tra 12 e 24 miliardi dice un organismo filogovernativo inglese. Settimana scorsa è entrato in campo Ian Wood, uomo d’affari esperto del settore: potrebbero essere 24 miliardi, ma è più probabile tra 15 e 16,5 miliardi. Economisti ed esperti hanno replicato schierandosi da una parte o dall’altra, una vera gazzarra. Giustificata dal fatto che il bilancio di un’eventuale Scozia indipendente sarebbe condizionato, in positivo o in negativo, dalle entrate petrolifere. «Il problema cruciale», avverte Curtice, «è come la Scozia potrà sopravvivere a lungo termine tenendo comunque presente un lento declino delle riserve petrolifere». L’ex primo ministro Gordon Brown, in campo per il No, fa notare che il 70 per cento dell’interscambio commerciale scozzese è con l’Inghilterra e la separazione dal punto di vista anche psicologico non gioverebbe per nulla. E sulla moneta ridicolizza Salmond, favorevole a restare con la sterlina, parlando di relazioni da neocolonialismo con il resto della Gran Bretagna, considerato che sul pound decide tutto la Banca d’Inghilterra, e nulla potrebbe la Scozia indipendente.

Ma cosa succederà il 19 settembre? Se vince largamente il No, nemici come prima. Se il successo è relativo, con uno scarto di pochi punti, Cameron, ma anche l’opposizione laburista, dovranno capire e fare i conti con le elezioni dell’anno prossimo, con la possibile nuova avanzata della destra Ukip (che in Scozia non conta nulla, ma nel resto della Gran Bretagna parecchio, come dimostrato dalle recenti elezioni europee) e con il referendum per restare o meno nell’Ue annunciato dallo stesso Cameron, oltre a proseguire con la devoluzione scozzese. Dovesse vincere il Sì, contro i principali partiti, l’establishment economico e quasi tutti i media, si prepara un terremoto in Gran Bretagna e in Europa. Una doccia scozzese dalle conseguenze imprevedibili.

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