La sociologa, tra le più autorevoli studiose dei processi di globalizzazione, giudica positivamente l'avvento di Tsipras e del suo Syriza al governo della Grecia. "E' un passo importante per tutta l'eurozona. Segnala la necessità di archiviare l’economia predatoria in favore di un’economia che sia realmente distributiva" 

Saskia Sassen: "Tsipras in Grecia, un modello per cambiare rotta"

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Una “salutare ribellione” alle politiche di austerity e al capitalismo predatorio. Per Saskia Sassen, docente di Sociologia alla Columbia University di New York, tra le più autorevoli studiose dei processi di globalizzazione, il successo elettorale di Syriza in Grecia è un risultato estremamente positivo. E può rappresentare una svolta per tutta l’eurozona, nonostante le difficoltà che incontrerà il nuovo governo di Atene.

Perché il voto “dà voce a quanti sono stati espulsi dall’economia e dalla società greca”. E perché segnala la necessità di cambiare rotta: dall’economia predatoria fondata sull’espulsione a una vera economia distributiva, che punti all’inclusione. Il primo passo in questa direzione, sostiene l’autrice di Expulsions. Brutality and Complexity in the Global Economy (Harvard University Press 2014, in corso di traduzione per il Mulino), è la rinegoziazione del debito. “Una prassi comune e necessaria”, oltre che il primo test sul quale si misurerà la tenuta del governo di Alexis Tsipras di fronte alle pressioni e alle resistenze dell’establishment europeo.

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Professoressa Sassen, come giudica la vittoria di Syriza nelle elezioni greche?
Sono d’accordo con chi la interpreta come ‘la rivolta greca’ contro l’austerity. Ma è una ribellione ponderata, perché nasce dalla profonda comprensione di quali siano gli elementi essenziali di un’economia politica. Da una parte c’è l’economia politica centrata sull’austerity, dall’altra quella proposta da Syriza. Quando - come succede in Grecia - gli impiegati statali vengono licenziati, gli ospedali chiusi, quando le piccole aziende che forniscono servizi al governo non vengono pagate, quando si permette che i bambini, le donne incinte, gli anziani finiscano per strada, ma nello stesso tempo si finanziano lautamente le grandi banche, non si tratta di economia, ma di decisioni di politica economica. E del peggior tipo possibile. Syriza si pone dinanzi al disastroso insieme di decisioni imposte al popolo greco e dice: ‘No, questa non è l’unica via soltanto perché il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea pensano che lo sia. Ci deve essere un’altra strada’.


Subito dopo l’annuncio della vittoria di Syriza, di fronte ai suoi elettori Alexis Tsipras ha detto che «il popolo greco ha fatto la storia». Il risultato elettorale può rappresentare un vero punto di svolta per la Grecia e per l’eurozona, o l’entusiasmo della sinistra europea e di Tsipras è eccessivo?
Si tratta di una svolta effettiva. Non è un caso che così tante persone prestino attenzione a ciò che accade in Grecia e che sul fronte opposto, di fronte alle promesse di Tsipras di cambiare le cose, molte altre invochino già, quasi istericamente, le vecchie obiezioni sul come un’economia dovrebbe funzionare. Gli avvenimenti della Grecia rendono evidente una questione fondamentale: l’insieme di principi che guida gran parte delle nostre economie occidentali si è dimostrato fallimentare per settori sempre più ampi della popolazione, e ha concentrato il benessere in una porzione troppo circoscritta di settori economici e di famiglie.


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La volontà politica di Tsipras, per il quale la Troika e i suoi diktat «fanno parte del passato», sarà sufficiente a invertire questa tendenza, perlomeno in Grecia? Lei stessa ricorda spesso che oggi occorre fare i conti non solo con le oligarchie, con le elite predatorie, ma con vere e proprie «formazioni predatorie», ben più complesse...
La volontà politica non è sufficiente, ma è essenziale. In questo caso segnala che Syriza ha la chiara comprensione e la precisa volontà per iniziare ad affrontare la crisi greca con strumenti diversi. C’è bisogno di fare, nel vero senso della parola. Non si tratta soltanto di una decisione, ma di invertire il corso delle cose. Il governo precedente ha scelto di accettare un’opzione che gli era stata presentata come l’unica. Il nuovo governo ha di fronte una sfida enorme: archiviare l’economia predatoria che concentra il benessere nelle mani di pochissimi in favore di un’economia che sia realmente distributiva. Significa muoversi verso un’economia caratterizzata in modo prevalente da salari modesti e profitti modesti. Non sarà semplice, soprattutto perché questa via contraddice il dogma economico dominante che ha assunto forme estreme con l’avvio dell’era della deregolamentazione e della privatizzazione, negli anni Ottanta: il profitto a tutti i costi.


«Le elezioni greche aumenteranno l’incertezza in tutta Europa», ha affermato il primo ministro David Cameron, dando voce a una preoccupazione diffusa nell’establishment europeo. In che modo il successo di Syriza condizionerà il futuro dell’eurozona?
Quello greco potrebbe diventare un interessante esperimento naturale, dimostrando che un’economia dominata da settori economici con modesti margini di profitti e salari medi può funzionare, nonostante non soddisfi i criteri preferiti dal mondo delle corporation e da molti rappresentanti delle banche centrali, sebbene non da tutti: per esempio a Mark Carney, governatore della Banca centrale inglese, non convince il modo in cui funzionano le nostre economie, incluse quelle che apparentemente stanno facendo bene, come quella del Regno Unito.


Tsipras ha ripetuto più volte, prima e dopo le elezioni, che ha intenzione di rinegoziare il debito della Grecia. É un passo necessario per recuperare la stabilità e la sovranità dell’economia greca, come ripete il leader di Syriza, o una violazione dei patti europei?
La richiesta di Tsipras non deve sorprendere. I debiti, specialmente quelli governativi, vengono spesso rinegoziati. É una pratica piuttosto comune. Forse la più grande e imponente rinegoziazione è stata quella attuata dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale a partire dagli anni Novanta con il programma destinato a 46 paesi fortemente indebitati (Heavily Indebted Poor Countries, HIPC). Venne stabilito che quei paesi non potessero restituire il debito e i termini dei programmi di risanamento vennero radicalmente modificati. È il caso più emblematico di una prassi corrente. D’altronde lo stesso accordo stipulato con l’Unione europea dal primo ministro uscente della Grecia, Antonis Samaras, non è altro che una rinegoziazione del debito.
 
Nel suo ultimo libro lei sottolinea l’uso politico della questione del debito, già usata in passato come «strumento di disciplina» verso i paesi del Sud del mondo. Ci spiega meglio?
Il debito è stato usato spesso come strumento disciplinante. E la sua formazione varia di caso in caso. Il debito dei paesi del ‘Sud globale’, cresciuto rapidamente negli anni Ottanta e Novanta, era il risultato della vendita aggressiva di prestiti da parte delle grandi banche, che avevano un surplus di denaro di cui sbarazzarsi (proveniva dai paesi esportatori di petrolio, dopo la crisi del petrolio del 1973). In quel periodo, le cosiddette banche transnazionali si occupavano soprattutto di vendere denaro. L’altro elemento centrale nella formazione del debito nel Sud è stato la spinta per la deregolamentazione e per la privatizzazione: per costruire le infrastrutture di cui avevano bisogno le grandi corporation, soprattutto straniere, i governi si sono pesantemente indebitati con il Fondo monetario internazionale e con quelle stesse corporation. Una storia drammatica, perché ha causato la distruzione delle piccole aziende. Attraverso il debito, è stata modellata l’economia politica del Sud del mondo ai fini della nuova governance globale, indebolendo i governi e rendendoli dipendenti dalle organizzazioni internazionali.

Lei sostiene che oggi un simile meccanismo sarebbe in atto nell’eurozona, dove la leva del debito verrebbe impiegata per riorganizzare l’economia politica comunitaria. Cosa intende?
Attraverso il debito oggi i governi europei vengono usati per rendere le economie di alcuni paesi - la Grecia, l’Italia, la Spagna - funzionali agli interessi delle corporation. Per imporre un ampio progetto di ristrutturazione che favorisca l’economia privatizzata delle corporation a spese del contratto sociale. Il che spesso significa anche la distruzione delle piccole attività economiche che hanno storicamente soddisfatto i bisogni della maggior parte della popolazione. Per questo in Expulsions scrivo che i programmi di aggiustamento strutturale del Sud globale sono diventati i programmi di austerity del Nord globale. In quel caso si trattava di sollecitare i governi a una condotta appropriata: ‘governi, imparate come si fa a essere moderni’, si diceva loro. Nel caso attuale si enfatizza una sorta di etica protestante: l’austerità! É salutare che qualcuno cominci a ribellarsi. A partire da Atene.

Nel suo ultimo libro, Expulsions, lei scrive che la crisi greca non rappresenta un’anomalia, perché incarna le caratteristiche strutturali dell’economia politica di tutta l’Unione europea, mostrando la logica sistemica di una nuova fase del capitalismo: la logica delle espulsioni. Ci spiega meglio?
La mia tesi è che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso siamo entrati in una nuova fase del capitalismo, la cui logica centrale è appunto quella delle espulsioni. Intendo dire che settori sempre più ampi della nostra economia e della nostra società assumono un’importanza progressivamente minore agli occhi di coloro che decidono le regole di cosa sia un’economia funzionante. E ne vengono espulsi. Se nel periodo keynesiano l’esistenza di classi medie numerose e delle classi operarie erano elementi centrali dell’economia, perché questa era fondata sulla produzione e sul consumo, oggi appaiono molto meno rilevanti, perché è la finanza, piuttosto che la produzione e il consumo, a produrre superprofitti. Una volta a orientare l’economia era una logica di inclusione, volta a incorporare i marginalizzati e i poveri nel mainstream economico e politico, a ridurre le tendenze sistemiche alla disuguaglianza. Oggi invece domina la logica opposta, quella dell’espulsione. Un’inversione radicale, che va contrastata.
 
Lei sostiene che in Grecia le politiche di austerity e la logica dell’espulsione che ne è alla base abbiano causato una ridefinizione de facto dello spazio economico. In che modo?
Si tratta di una riduzione dello spazio economico che esclude dalle misurazioni standard le aziende, i nuclei famigliari, i luoghi considerati prima produttivi e, poi, espulsi dallo spazio economico ufficiale. L’esempio più evidente è quello dei disoccupati di lungo termine, che sono stati esclusi dalle statistiche sull’occupazione. In questo modo l’andamento dell’economia appare migliore di quanto non sia nella realtà e si attraggono più facilmente gli investimenti. In modo simile, nelle statistiche ufficiali non vengono più conteggiati coloro che perdono casa e che provano a sopravvivere passando parte del tempo in chiesa, parte dagli amici, parte dai parenti, finendo probabilmente per strada. Il linguaggio ordinario, le griglie analitiche a cui siamo abituati, il riferimento esclusivo alla ‘bassa crescita’ e alle percentuali di ‘alta disoccupazione’ sono insufficienti a descrivere questo processo, che elimina di fatto gli elementi considerati problematici. È una forma di ‘pulizia economica’. Il voto greco contesta questa pulizia economica.


A chi conviene presentare statistiche ufficiali depurate dagli “espulsi”?
Anch’io mi sono chiesta a chi convenga presentare una fotografia migliore della realtà, chi abbia interesse a far sparire i disoccupati di lungo corso, i senza-tetto, a rendere invisibili quanti hanno dovuto chiudere negozi e aziende: sono gli investitori. Coloro che siedono su una importante somma di capitale (e la proprietà di capitale è sempre più concentrata) e che vogliono farlo fruttare. Per loro, perdere un intero paese non è proficuo. Molto meglio ‘recuperare’ quel paese, presentandolo come un luogo dove – secondo i termini a loro congeniali - ci sono ancora buone possibilità di investimento.


Significa che la vittoria di Syriza va letta anche come una rivendicazione da parte degli “esclusi”, un modo attraverso il quale i “nuovi invisibili” chiedono visibilità e riacquistano protagonismo politico?
L’affermazione di Syriza va in questa direzione, perché rappresenta e dà voce a un ampio settore degli esclusi, degli espulsi. Ma va inserita in una storia più ampia. Gli accordi che presiedono l’attuale funzionamento della politica economica greca ed europea continuano a distruggere ampie porzioni del tessuto economico e sociale (oltre che culturale). Secondo la prospettiva della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, dal punto di vista del mondo delle corporation, uno ‘spazio economico’ greco radicalmente ‘ridotto’ va bene, fintanto che garantisce gli investimenti. Syriza dà voce agli esclusi, è vero. Ma il progetto dell’Unione europea va in direzione contraria: punta a rafforzare, tra gli inclusi, coloro che sono forti. Questa è la differenza. Questa la battaglia che dovrà affrontare Tsipras.


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