Antonio De Palo è un giovane operaio che nel 1945 cerca di condurre una vita normale, si alza presto la mattina per andare a lavorare nonostante a Milano, la città in cui abita, il clima sociale sia dei peggiori. La città è in mano ai nazifascisti e le violenze sono all’ordine del giorno. La sua quotidianità viene sconvolta proprio a ridosso della Liberazione, quando di fronte al suo stabilimento i fascisti uccidono senza pietà

Il diario di Antonio De Palo (foto di Luigi Burroni)
24 aprile 1945
I mezzi di trasporto erano scarsi e sulla tratta Milano-Magenta c’era “El gamba de Legn” che faceva servizio, ma per via della scarsità di carbone le sue corse erano ridotte a solo due, una al mattino e una alla sera e per questo fatto il mezzo più usato era la bicicletta.

Parto verso le sette, lavoravo presso la CGE (Compagnia generale di elettricità, ndr) sita in via Bergognone a Milano, ditta un po’ dirroccata dai bombardamenti. Giunto in via Bergognone, deposito la bicicletta e entro in fabbrica. Scendo nello spogliatoio, mi cambio e salgo su in reparto, timbro il cartellino e attendo il suono della sirena. Ma alle otto nessuno si muove, le macchine rimangono ferme, fino a quel momento tutto appariva normale, pertanto mi sembrava tutto molto strano, attorno a me incominciavo a notare faccie un po’ strane, spaventate c’era un clima come se stesse succedendo qualcosa di grave, senza sapere cosa.

Antonio De Palo a 23 anni (1952)
Con altri ragazzi, incominciamo a guardarci attorno e poco dopo vediamo entrare in reparto il direttore generale, il rag. Amantia, io lo conoscevo solo di fama, era comunque un uomo importante. Ci avviciniamo attorno a lui per ascoltare le sue parole, perché era giunto in reparto per parlarci e ci disse: “Lavoratori non abbiate paura, qui in fabbrica abbiamo viveri a sufficienza per resistere anche per un mese, pertanto state calmi e tranquilli”.

Sembrava uno stato di guerra, fece il giro di tutta la fabbrica.

Cominciai con altri ragazzi a girare un po’ per la fabbrica e constatai che alcuni dipendenti giravano con il fucile a tracolla, erano i partigiani.

Gli ingressi intanto venivano sbarrati con carcasse di motori, mentre altri trasportavano piccoli pezzi ferrosi su ai piani alti. La cosa mi spaventava sempre più. La ditta era circondata da soldati repubblicani […].

Verso le dieci del mattino vengono portati sul piazzale antistante l’ingresso principale due partigiani, dicevano che erano stati prelevati da San Vittore questi si inginocchiano davanti al piccolo plotone di esecuzione, supplicando, ma i fascisti sparano e li uccidono, l’esecuzione dei due doveva forse servire a impressionare le maestranze. […] Poco più tardi una notizia, un accordo raggiunto tra la direzione e i militari, all’esterno, permetteva di far uscire tutte le donne. Impressione tra i rimasti, forse adesso si inizia a sparare, ma poco più tardi altra notizia, dalla ditta potevano uscire tutti coloro che lo desiderassero […].

Quando esco, con tanta paura addosso, svolto subito a destra, in via Tortona, per andare al deposito delle biciclette, passo davanti ai due fucilati, coperti da un lenzuolo, tiro dritto con cautela, entro nel deposito prendo la bicicletta e inizio il rientro verso casa. Poca gente per le strade, c’è attorno un clima i paura e ogni tanto si ode qualche sparo.


Antonio De Palo

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