Il suo capolavoro rifiutato perché lontano dal neorealismo. Il valore letterario offuscato dal ruolo di testimone di Auschwitz. Un saggio di Belpoliti restituisce a un maestro del Novecento la sua vera statura

Primo Levi, se questo è un grande scrittore

Primo Levi
"Primo Levi di fronte e di profilo” è un testo lungo oltre settecentotrenta pagine, scritto da Marco Belpoliti, curatore delle opere dello scrittore torinese, che Guanda sta mandando in libreria in questi giorni. Detto così, si pone una domanda brutale: cosa si può aggiungere al profilo appunto, di un autore diventato ormai un classico del secolo scorso e studiato nei licei di mezzo Occidente, oggetto di convegni e seminari universitari e di una gran quantità di dotti saggi critici?

La risposta è altrettanto brutale; Belpoliti (per altro firma di questo settimanale) ha liberato Levi da Auschwitz. Spiegazione: l’autore di “Se questo è un uomo”, per decenni è stato considerato un importante testimone; e una sorta di pedagogo della dignità umana. Con il suo ultimo libro, viene da dire definitivo in tutti i sensi della parola, “I sommersi e i salvati”, si è accennato alla possibilità che Levi fosse anche un saggista di primissimo ordine, con delle belle intuizioni di stampo filosofico. Ma il suicidio, avvenuto poco dopo la pubblicazione di quel testo, ha permesso di liquidarlo un po’ sbrigativamente come il testamento di un ex deportato depresso per il peso della memoria e scoraggiato dall’avanzare dei negazionisti. Tra quei due libri, ce ne furono altri: romanzi, poesie, racconti, che furono però trattati come svaghi di un’autorità morale, il cui compito era vegliare sulle nostre coscienze e ricordarci gli orrori del nazismo.
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Ebbene, Belpoliti usa le oltre settecentotrenta pagine e il suo bagaglio pluridecennale di studioso di letteratura per dire una cosa semplice: Levi prima di tutto è stato un grande scrittore; uno dei più grandi del secolo scorso, non solo tra gli italiani, ma in assoluto. L’autore parte dalla cucina, anzi dal laboratorio dell’oggetto della sua indagine. E rimette in questione anche le troppo comode verità sulle ragioni per cui “Se questo è un uomo” fu rifiutato, negli anni Quaranta, da Einaudi, che lo pubblicò solo nel 1958. Ma procediamo con ordine.

Il libro di Belpoliti è composto da fotografie (dieci), testi analitici, vocabolari, intermezzi, citazioni e tante divagazioni che sollecitano la collaborazione del lettore. Si tratta di un testo che può essere letto a vari livelli, con diversi scopi; lasciando a chi ne usufruisce un’ampia libertà di scegliere la sequenza dei capitoli e degli argomenti.

In parole povere: “Primo Levi di fronte e di profilo” (il titolo si riferisce alla tecnica fotografica) è una specie di enciclopedia, probabilmente un testo definitivo sullo scrittore. E questo non solo per la qualità delle suggestioni, quanto per la massa del materiale accumulato: dalle opere dell’autore, alle interviste, alle recensioni e agli scambi epistolari. E non manca la confessione di Belpoliti sulle ragioni del suo interesse per Levi: le lasciamo al lettore, ma si può dire che quelle ragioni sono ancorate nella storia della cultura italiana, specie di sinistra, comprese le sue omissioni.
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Belpoliti dunque parte, in ordine cronologico, da “Se questo è un uomo”, il libro più celebre di Levi. Ne parla a lungo e in apparenza anche troppo dettagliatamente. Ma i dettagli si compongono in una totalità affascinante, come succede con certi puzzle. Mettendo a confronto le varie versioni di quel testo (e ce ne sono tante: tra lettere private, testimonianze rese in diverse occasioni, correzioni dei manoscritti), Belpoliti spiega il metodo Levi. Ne risulta una cosa non del tutto scontata: Levi, prima ancora di essere diventato uno scrittore, usava le tecniche di ogni grande letterato: componeva i suoi testi a pezzettini, li cambiava in continuazione, alla perenne ricerca della parola esatta; e non era mai soddisfatto della precisione di certe espressioni o di alcuni aggettivi.

Insomma Levi, testimone dell’orrore e chimico di mestiere, usava la penna allo stesso modo in cui la adopera un Philip Roth o un Paul Auster, da scrittore provetto. Anche se non era conscio (a differenza di un Roth o di un Auster) della propria grandezza.

“Se questo è un uomo”, notoriamente fu respinto da Einaudi e venne pubblicato nel 1947 da De Silva, piccola casa editrice diretta da Franco Antonicelli. Nella presentazione del volume, si parlava di una «storia non di letterati», insomma, di una testimonianza. E la vulgata, per altro per certi versi avvalorata dallo stesso Levi (a riprova di quanto tutti noi siamo influenzati dal linguaggio al momento egemone) voleva riportare il rifiuto einaudiano, con la complicità di Natalia Ginzburg, all’indisponibilità in quegli anni di ascoltare i testimoni appunto. La gente pensava a costruire il futuro, non a rinvangare il passato, si diceva.

Belpoliti non accetta questa versione della storia delle patrie lettere. E suggerisce che il rifiuto dello stupendo - proprio dal punto di vista stilistico - libro di Levi, fosse dovuto a motivi stilistici, appunto. E qui sono fondamentali i riferimenti linguistici e letterari. Levi, dice Belpoliti, deve tutto a Manzoni ed è in forte debito con Leopardi e Dante, questo ultimo non solo in quanto autore del “Canto di Ulisse” che gli permette di sopravvivere spiritualmente nel Lager, ma proprio come fondatore della lingua italiana. Levi usa un linguaggio classico, estremamente ben strutturato e dove nonostante la materia autobiografica, è evidente la distanza tra l’autore e il testo.

O se vogliamo, il modo di scrivere di Levi, non si addice al canone in voga nella seconda metà degli anni Quaranta, perché lontano sia dal neorealismo che da sperimentazioni di stampo modernista. “Se questo è un uomo” è lontanissimo dall’idea che della letteratura avevano allora i principi della Repubblica delle lettere del nostro Paese.

E per il resto? Per il resto Levi è un uomo ibrido e poliedrico: scrittore e chimico, linguista, etologo e antropologo; narratore orale, scrittore politico, scrittore ebraico, italiano, piemontese; e poeta. Nessuna di quelle sue molteplici identità è lineare e univoca, dice Belpoliti, che si sofferma molto sul lato ebraico di Levi; il suo era un ebraismo laico, illuminista, critico nei confronti delle politiche dei governi dello Stato d’Israele e contrario alla sacralizzazione della Shoah, alla trasformazione della memoria in un rito.

Tra le debolezze di Levi, c’è la vicenda della mancata pubblicazione di “Se questo è un uomo” nell’allora Ddr. La retorica di quel libro era lontana dal canone di narrazione comunista. Levi avrebbe acconsentito a fare qualche taglio pur di vedere quel libro arrivare nelle mani dei lettori tedeschi dell’est (lui ai lettori tedeschi ci teneva, e giustamente). Poi non se ne fece nulla. E tra le sue mancate intuizioni: la scarsa comprensione dei libri degli autori russi sul Gulag, incomprensione dovuta non a motivi ideologici, ma perché quei libri erano lontani dal mondo illuministico e razionalista di Levi.

Rimane un uomo geniale, che ha avuto molte intuizioni sulla banalità del male e sulla facilità con cui ci arrendiamo alle tentazioni del potere, che vanno, secondo Belpoliti, perfino oltre le più radicali analisi di Hannah Arendt. E resta per le generazioni future il meraviglioso autore di stupendi libri, in cui non manca mai l’ironia, il senso dell’umorismo (altro che vena moralista!). Libri che parlano del lavoro, dell’amore, del desiderio: della vita di ciascuno di noi.

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