
Ebbene, il nostro capitalismo se la sta cavando niente male, visto che non ha subito grossi scossoni nell'assetto proprietario. Fa tuttora capo ad un azionista prevalente il controllo dell'83 per cento delle società quotate in Borsa. Questo azionista è a tutti gli effetti il padrone, in quanto ha il possesso della maggioranza del capitale, ma può anche possederne una quota inferiore, che gli permette però di essere dominante, oppure comanda attraverso patti di sindacato.
Il modello della public company, la società a proprietà diffusa, da noi non ha attecchito. Sono soltanto 13 le quotate con questa caratteristica, pari al 24 per cento del mercato. C'è ancora una forte presenza della mano pubblica in Borsa: lo Stato (o l'ente locale) azionista pesa quantitativamente solo l'8 per cento del totale delle società quotate, ma si tratta di pesi massimi in quanto hanno una capitalizzazione che supera il 32 percento del totale. I veri protagonisti del listino restano però le famiglie imprenditoriali, che rappresentano ancora la classe più numerosa delle società quotate. Sono titolari del controllo del 61 per cento delle aziende, pari al 30 per cento della capitalizzazione. Poco meno dello Stato-padrone, ma con una folla di soggetti che esprime una delle lobby più forti del paese.
Grazie a queste caratteristiche, il nostro capitalismo resta sostanzialmente poco contendibile. Ma non per questo meno appetibile.
Nonostante la ferrea presa sul listino da parte del “patron”, il Rapporto fotografa la presenza crescente di un nuovo protagonista del capitalismo nostrano: l'investitore istituzionale straniero. Tipicamente un fondo di investimento, come per esempio il colosso Blackrock, che ha preso posizioni importanti in molte delle società del nostro cortile.
A fine 2014 ben 94 società (pari al 40 per cento del mercato) registravano la presenza come socio importante di un investitore istituzionale: rispetto al passato, in questi anni di recessione è la nazionalità che è cambiata. Se nel 2011 gli investitori italiani erano 57, ora sono rimasti in 34, mentre gli stranieri sono cresciuti da 50 a 71 nello stesso periodo, trainati dalla crescita di venture capitalist, fondi sovrani, e private equity fund. Non solo: fanno anche sentire sempre di più la loro voce nella gestione della società in cui sono entrati, partecipando attivamente alle assemblee annuali (che proprio grazie al carattere fortemente proprietario del nostro capitalismo è stato a lungo considerato solo un rituale), votando contro più che in passato, soprattutto criticando la politica di remunerazione verso i manager.
Il Rapporto inoltre documenta un trend di cui la cronaca finanziaria ha già dato ampi segnali, e cioè il declino del sistema delle società piramidali: erano il 36 per cento delle imprese nel 1998 (ma con un peso del 75 per cento del valore del mercato), nel 2014 sono scese al 19 per cento (mantengono però un buon 61,5 della capitalizzazione del mercato). Come pure è in declino del mondo dei “patti” quegli accordi tra azionisti, tutti con piccole quote non decisive, che conferendole però in un “patto di sindacato” riescono a controllare importanti società finanziarie o imprese industriali. Erano 51 in Borsa i casi nel 2010, oggi sono scesi a 32.
Anche se piramidi e patti perdono terreno, questo non impedisce però al sistema delle quotate di coltivare un altro difetto fisiologico: la presenza incrociata delle stesse persone in diversi consigli d'amministrazione. Ha un nome inglese, e questo vuol dire che il difetto non è solo nostrano: si chiama “interlocking”, e da noi coinvolge due terzi delle società del listino, il che vuol dire che le stesse facce di amministratori si spartiscono da un quarto alla metà delle poltrone nei consigli. Ogni consigliere di questa rete di incroci deve gestire in media due poltrone, ma per le società del Ftse Mib – le più grandi - le poltrone cumulate salgono al doppio. Ognuno ne tiene strette quattro, dividendosi su più fronti come amministratore, ma soprattutto tenendo in connessione interessi e informazioni. La linfa del capitalismo autoreferenziale.
Con un capitalismo così marcatamente familiare, non sorprende che ai vertici delle società prevalgano soggetti che da quelle famiglie provengono. Il 16 percento degli amministratori è classificabile come “family”, insomma imparentato con l'azionista di controllo, figlio o nipote che sia, e in media la loro carriera in azienda non è accompagnata da un titolo di studio adeguato (sono meno laureati degli amministratori non family).
La Consob dà infine evidenza al dato dell'ingresso massiccio delle donne nei board. Grazie alla legge del 2011, almeno un terzo dei consiglieri di una società quotata deve essere del genere meno rappresentato. Nel 2015 le donne – più istruite, più giovani - sono quindi arrivate a coprire più del 27 per cento dei posti disponibili negli organi di governance, dall'11 per cento che era la loro presenza nel 2012. Solo 16 di loro ce l'hanno fatta ad arrivare al top, sedute sulla poltrona di amministratore delegato. Le altre, in maggioranza, hanno incarichi non esecutivi e sono consiglieri indipendenti nel 68 per cento dei casi.