
Forse in queste settimane è finito un ciclo. Quello iniziato alla fine degli anni ’90 con la centralità di Auschwitz, più generalmente della Shoah, e la costruzione dell’Europa. Perché la scelta del 27 gennaio come data di memoria era indissolubilmente legata alla scommessa di fare l’Europa. Entrato in crisi quel progetto, forse non è così sorprendente che ci siano delle ripercussioni anche su quella data. Non è solo una questione di calendario. È una questione di progetto culturale e politico. In queste settimane si è rafforzato l’augurio ai propri avversari di andare ad Auschwitz (il Bentegodi di Verona è solo uno dei tanti).
Non è conseguenza di smemoratezza. Anzi l’opposto. Se qualcuno augura agli avversari di andare ad Auschwitz lo grida non perché non sa cosa sia accaduto là, ma proprio perché lo sa. Per la precisione sa almeno le due cose: una selezione molto rigida all’ingresso che salva pochi, un tempo di sopravvivenza abbastanza corto o un ciclo di vita molto rapido per i sopravvissuti. Perché chiamarla smemoratezza?
Questo era vero fin dagli anni ’70 (non era questo l’invito che i tifosi della Mobilgirgi gridarono ai tifosi del Maccabi Tel Aviv la sera del 7 marzo 1979, nel palazzetto dello Sport di Varese?) e per cercare di costruire una sensibilità, soprattutto nei giovani, fatta di viaggi di memoria e una didattica della storia che ascoltasse voci e esperienze e non fosse solo date e battaglie.
La situazione è cambiata a partire dallo scorso 29 ottobre con l’approvazione della istituzione della commissione contro l’odio, il razzismo. In storia è importante dare un luogo, una data, e un nome (o un volto) ai momenti di svolta. Bene, diciamoli. Nell’ordine sono: Predappio, l’8 novembre 2019, e Roberto Canali, sindaco della città. Il segnale simbolico, ma che indica una svolta, è nella decisione di sospendere il sostegno ai viaggi di memoria con destinazione Auschwitz perché, sostiene Canali senza aver dovuto ritrattare pubblicamente, quei viaggi sono «di parte».
Al loro posto o, in subordine, oltre ad essi, andrebbero intrapresi altri viaggi di memoria, con altre mete, dove sono morti italiani. Sarebbe interessante sapere se in quelle altre mete Roberto Canali includa anche quei campi tedeschi dove patirono in condizione di schiavi, un milione di lavoratori italiani e circa 600 mila militari italiani che scelsero di non unirsi all’esercito nazista dopo il 1943. Dunque per Roberto Canali andare ad Auschwitz «è di parte» ed è venire meno al motto «prima gli italiani».
Aderire e sostenere il motto «prima gli italiani», che per ora in questo caso si presenta sotto le vesti tenui di «anche gli italiani», significa almeno due cose: 1. Ad Auschwitz, si deduce dalle parole di Roberto Canali, sono stati destinati esseri umani dall’identità nazionale incerta che non devono annullare o sopravanzare il ricordo verso altre vittime, a lungo trascurate, per le quali l’Italia ha un debito di ricordo da mantenere e da onorare perché cittadini suoi che hanno subito violenza; 2. Quei morti dimenticati sono le vittime di ideologie antitaliane verso cui è bene mantenere alta la guardia.
La politica chiede che la memoria della Shoah faccia un passo indietro, e che altri morti emergano. Morti che sono paladini e testimoni di altri valori in nome dei quali la nazione ritrova la sua dignità “calpestata” da quegli elementi antinazionali che avevano voluto punirla, umiliarla, soggiogarla. Una memoria rivendicata come riscatto dalla sudditanza e rinvigorita dalla convinzione di essere vittime di tutti i cattivi del mondo (banche, Ue, Soros, poteri occulti, forse anche l’internazionale giudaica). Non tira una grande aria per il 27 gennaio, ma nemmeno per il prossimo 10 febbraio.