Inchiesta
Diritti negati, revisionismo e discriminazioni: così la destra di Salvini governa sul territorio
Viaggio nei comuni e nelle regioni amministrate dai sovranisti, impegnate in una guerra senza quartiere ai simboli "avversari". E dove governatori, sindaci e consiglieri comunali fanno a gara nel riabilitare il fascismo, togliere gli striscioni per Regeni, negare sale a chi la pensa in maniera diversa
Quando un esercito conquista la roccaforte del nemico, per prima cosa toglie la bandiera degli sconfitti per issare la sua. È il gesto simbolico per eccellenza: mette la parola fine a ogni contesa, chiarisce subito e in maniera inequivocabile chi comanda.
È quello che hanno fatto nell’ultimo anno e mezzo gli amministratori locali della Lega di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Governatori, sindaci, consiglieri regionali e comunali: i politici più legati ai territori, quelli che ne tastano il polso, più vicini agli umori degli elettori. Non si sono accontentati dei risultati elettorali, ma hanno dato il via a una guerra diffusa contro i simboli e le bandiere degli avversari, dei “nemici” politici. Sale del comune negate a libri o a dibattiti “scomodi”, patrocini tolti agli eventi del mondo Lgbt+, striscioni di campagne di sensibilizzazione strappati via, rimozione e alterazione progressiva della memoria della resistenza antifascista, cittadinanze negate ai reduci dei campi di concentramento e confermate a Mussolini, luoghi della cultura vietati ad artisti non allineati alle idee dei nuovi potenti, limiti burocratici alla libertà di culto. Sono solo alcune delle bandiere rimosse dopo l’insediamento degli amministratori sovranisti.
Tra il 2018 e il 2019, anno appena concluso, L’Espresso ha contato circa ottanta episodi di questo genere in tutta Italia, da Nord a Sud, isole comprese. Divieti e boicottaggi che spesso rimangono confinati negli articoli delle cronache locali senza suscitare forti reazioni. Ma che quando arrivano sotto i riflettori della ribalta nazionale, sono quasi sempre derubricati in fretta come gaffe, giustificati con cavilli tecnici dei regolamenti comunali o identificati come folklore di qualche politico di provincia in cerca di visibilità.
La mappa dell'assalto sovranista
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Non sono episodi di poco conto, nonostante patrocini, striscioni, cittadinanze onorarie non abbiano nessun costo per le tasche dei cittadini. Il valore è simbolico. Proprio per questo, mettendo insieme i vari gesti, viene alla luce una strategia più ampia: non vale più la regola secondo cui passate le elezioni chi amministra è “il sindaco di tutti”, anche di chi non lo ha votato. Non c’è una semplice alternanza al potere, come in ogni democrazia sana, ma un cambio di paradigma e di valori di riferimento che deve essere evidente ai cittadini. E che, gli piaccia o meno, devono accettare.
NON C’È POSTO PER REGENI
La prima bandiera che gli amministratori sovranisti non possono sopportare nei loro territori è in realtà uno striscione giallo. Quello con su scritto “Verità per Giulio Regeni” ed esposto a partire dal 2016 sulle facciate di oltre 250 comuni d’Italia. La campagna di Amnesty Italia per chiedere giustizia e tenere i riflettori accesi sul caso del ricercatore italiano brutalmente torturato e ucciso in Egitto da uomini legati al regime di Al-Sisi è una vera ossessione per la Lega. Non a caso, appena eletti a Ferrara, i leghisti hanno pensato bene di farsi fotografare trionfanti con il logo di Alberto da Giussano a coprire il telo giallo fuori dal palazzo del Comune. Telo giallo che ad ottobre è stato poi bruciato da ignoti. A giugno è stata la regione Friuli Venezia Giulia, governata dal 2018 dal leghista Massimiliano Fedriga, a decidere che la sede di Trieste, città in cui è nato Regeni, non doveva più esporre il vessillo di Amnesty. «È l’ennesima pretestuosa provocazione», ha risposto Fedriga al coro di critiche, con tanto di contrattacco. «Malgrado non condivida la politica degli striscioni e dei braccialetti, non ho fatto rimuovere lo striscione per più di un anno per non portare nell’agone politico la morte di un ragazzo». Bontà sua.
D’altra parte era stato lo stesso Matteo Salvini, nella sua prima uscita da ministro dell’Interno sul tema, a dichiarare al Corriere della Sera: «Per noi, l’Italia, è più importante avere buone relazioni con un Paese come l’Egitto». Così l’elenco di comuni de-regenizzati dal centrodestra si è allungato: Treviso, Pisa, Mogliano, Montichiari, Alba, San Daniele del Friuli, Cassina de Pecchi. Fino ai casi da guinness dei primati per velocità: a Sassuolo, nel modenese, lo striscione è stato rimosso tre settimane dopo la vittoria alle urne del Carroccio. A Cagliari invece ci hanno messo un po’ di più, cinque settimane. Nella sede della Regione Piemonte di Torino lo striscione ereditato dall’amministrazione di centrosinistra lo hanno tenuto, ma lo hanno affiancato a quello che chiede “Verità su Bibbiano”. Anche dove la Lega è in minoranza poi non sta con le mani in mano, come dimostra la mozione al consiglio comunale di Fidenza per far togliere il simbolo per Giulio. Le motivazioni ufficiali di queste rimozioni variano dal comico al surreale. «È una vicenda non più di attualità», «in centro storico stava male», «il municipio non è lo stadio». C’è persino chi si giustifica dicendo che la scritta era rovinata o impolverata e per questo andava eliminata.
«Nella destra italiana manca una cultura dei diritti e così ogni campagna che ne parla viene percepita come qualcosa di estraneo, degli altri» commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ong promotrice dell’iniziativa su Regeni. «Questo attacco alla campagna per la verità su Giulio non è solo triste, ma è qualcosa di pericoloso e da condannare per due ragioni. Per prima cosa in questo modo si ingabbia una battaglia che dovrebbe essere di tutti dentro una sola parte politica. E, seconda cosa, rinforza l’idea sbagliata che queste iniziative debbano durare solo un tempo stabilito invece di andare avanti fino a quando non viene raggiunto il risultato».
LA MEMORIA DI PARTE
Non è solo la richiesta di verità per Giulio Regeni a essere considerata di parte. Anche quando si parla di Shoah, di resistenza, e di iniziative per tramandarne la memoria, c’è un’espressione usata da molti sindaci di Lega e Fratelli d’Italia: «È divisivo». Un ritornello che ormai torna sempre più spesso. Come per il viaggio per Auschwitz che Deina, associazione che realizza “percorsi educativi rivolti a giovani partecipanti”, voleva organizzare. E per cui ha chiesto un contributo, 370 euro, per pagare le spese di uno studente residente nel comune al sindaco di Predappio, città dove è nato e sepolto Benito Mussolini. Roberto Canali, primo cittadino di centrodestra eletto in quella che è stata per anni una storica roccaforte della sinistra, a quell iniziativa ha detto no. «Abbiamo preferito non collaborare con chi organizza questi viaggi, perché questi treni vanno solo da una parte. Quando i “treni della memoria” andranno in tutte le direzioni e si fermeranno anche presso altri luoghi di oppressione del Novecento, come per esempio il Muro di Berlino o le Foibe, allora la nostra amministrazione contribuirà all’iniziativa». A chi gli ha fatto notare che l’associazione organizza viaggi anche in altri luoghi simbolo della violenza del Novecento, ha risposto: «A noi hanno chiesto soldi solo per Auschwitz».
Se per il sindaco di Predappio un viaggio della memoria è di parte, per quello di Schio, comune nel vicentino, le pietre d’inciampo in ricordo delle vittime delle deportazioni nazifasciste «portano odio e divisioni». Ha risposto così la maggioranza dei consiglieri comunali, eletti con la Lega e Fratelli d’Italia, alla mozione del centrosinistra per ricordare le 14 vittime che vivevano nella cittadina. «Iniziative del genere rischiano di portare di nuovo odio e divisioni. Come possiamo pensare di ricordare solamente qualcuno a discapito di altri?», ha affermato un consigliere eletto nella lista a sostegno del sindaco. Che a sua volta ha tuonato: «Non accettiamo strumentalizzazioni».
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Il primo cittadino di Schio non è l’unico che si è dovuto difendere da “strumentalizzazioni”. È la stessa espressione che hanno utilizzato decine di amministratori di centrodestra che hanno bocciato mozioni per dare la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. La senatrice a vita, sopravvissuta alla deportazione nel lager di Auschwitz, è costretta a vivere sotto scorta per le minacce ricevute dopo l’istituzione della Commissione parlamentare contro l’odio, da lei proposta. Uno degli ultimi episodi è quello di Cigliano, in provincia di Vercelli: il 29 dicembre il sindaco ha definito “strumentale” la richiesta di un consigliere comunale - di Fratelli d’Italia - di concedere la cittadinanza alla senatrice: «Una proposta senza senso, io mi asterrò dal voto».
Un altro caso tra tanti, sempre in Piemonte, è quello di Biella: il sindaco, il leghista Claudio Corradino, ha prima negato l’onorificenza a Segre per poi proporla al conduttore di Striscia la notizia Ezio Greggio - che ha rifiutato «per rispetto alla senatrice». Il primo cittadino, dopo le polemiche, ha fatto marcia indietro, scusandosi: «Sono stato un cretino».
QUANDO IL VALORE È “DIVISIVO”
«Ci sono però tantissimi sindaci che non sono così: come i seicento che hanno partecipato alla manifestazione organizzata da Beppe Sala a Milano in sostegno di Liliana Segre». Non vede tutto nero Carla Nespolo, presidente dell’Anpi. Anche l’associazione che riunisce i partigiani negli ultimi mesi ha subito le ostilità delle amministrazioni di centrodestra. Come a Trieste, il 25 aprile, quando il sindaco leghista Roberto Dipiazza non ha voluto i partigiani sul palco delle celebrazioni della Liberazione: «Così la festa non è divisiva». O a Lentate sul Seveso, in Brianza, dove la sindaca di Forza Italia ha “abolito” per un anno le celebrazioni: «Nel 2020 avremo una festa apartitica e apolitica». Non solo il 25 aprile, ma anche tante altre iniziative, come le pastasciutte antifasciste in memoria dei sette fratelli Cervi uccisi dai fascisti il 28 dicembre 1943. Tra chi ha negato il patrocinio, ci sono i sindaci della Lega di Sassuolo e Mirandola, comuni nel modenese: «No alla pastasciutta antifascista perché “anti” è divisivo», hanno motivato la loro decisione.
«Purtroppo c’è ancora chi non sa che se non ci fosse stata la Resistenza e i partigiani, non ci sarebbe stata la Repubblica. È difficile da dire 75 anni dopo. E dà più fastidio vedere che molti sono amministratori locali, quelli più vicini ai cittadini», afferma all’Espresso Carla Nespolo. «Come si fa a dire che l’antifascismo “è divisivo”? Ci sono stati antifascisti di ogni colore e cultura politica. Non è un valore di una parte, è il valore fondativo della nostra Costituzione. La stessa su cui giurano quando vengono eletti».
Un giuramento che non sembra preoccupare i tanti sindaci che ammiccano ancora al fascismo. Come quello di Terralba, in provincia di Oristano, che nonostante una raccolta di firme per togliere la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, gliel’ha confermata. O quello di Anzio, sul litorale laziale, che oltre a confermare l’onorificenza al dittatore, l’ha negata a una vittima locale delle persecuzioni razziali. O il sindaco di Gorizia, che lo scorso gennaio ha ricevuto in comune una delegazione della X Mas, reduci dei battaglioni del principe nero Junio Valerio Borghese. E quello di Finale Emilia, che sul palco del 25 aprile elogia pubblicamente un gerarca fascista. Iniziative, queste, evidentemente non “divisive”.
NON SI MARCIA PER I DIRITTI
Dal nero all’arcobaleno. «Utero in affitto, sdoganamento della pedofilia, poliamore sono gli obiettivi che vogliono raggiungere». Con queste parole, a metà dicembre, una consigliera comunale di Rieti ha espresso la sua «più ferma opposizione» alla candidatura della città come sede del Lazio Pride 2020. «Voleva difendere la famiglia tradizionale», ha cercato di sedare le polemiche il primo cittadino del comune laziale, un ex missino ora in Fratelli d’Italia. «Io però non darò l’autorizzazione». È solo l’ultimo caso di amministratori di centrodestra che si oppongono alle manifestazioni per i diritti Lgbt+. Sono decine in tutta la penisola: Novara, Pisa, Monza, Frosinone, Piombino, Genova, le province di Varese e Trento, la Regione Lombardia. Spesso giocano sui pregiudizi, con affermazioni ai limiti della diffamazione. Altre volte avanzano motivazioni ideologiche. Come la giunta regionale lombarda, che ha negato ogni tipo di sostegno al prossimo Milano Pride: una mozione chiedeva di illuminare il Pirellone con i colori della bandiera arcobaleno, «come è stato fatto nel 2019 per il Family Day». Proposta bocciata dalla maggioranza: «È una baracconata che non rappresenta nemmeno tutti gli omosessuali», la risposta seccata di un consigliere leghista.
«Il clima politico degli ultimi mesi ha sdoganato un atteggiamento ancora più ostile da parte di alcuni amministratori, che si sentono autorizzati ad avere atteggiamenti che un tempo non si sarebbero nemmeno sognati», evidenzia Gabriele Piazzoni, segretario nazionale Arcigay. «Non solo per quanto riguarda i patrocini per i Pride, ma anche per l’abbandono della Rete Ready da parte di alcuni sindaci della Lega». La Rete Ready è un sistema nazionale che mette in relazione le amministrazioni contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Un progetto che non pesa sulle casse locali, ma che - come L’Espresso ha raccontato lo scorso ottobre - sta venendo “smantellato” da molti comuni di centrodestra: Siena, Pistoia, Sesto San Giovanni, Trieste, Piacenza, Udine e la Regione Friuli Venezia Giulia hanno tutti abbandonato l’iniziativa che, grazie a dei finanziamenti, avvia corsi di aggiornamento, formazione e sensibilizzazione.
A Genova invece, il sindaco Marco Bucci ha aderito all’accordo dei comuni liguri in difesa della “famiglia tradizionale” proposto dal Forum Ligure delle Famiglie. Una delle tante iniziative che hanno fatto della Liguria la regione con il più alto tasso di “clericalismo istituzionale” del 2019, secondo il report annuale dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Uno dei fattori che ha inciso su questo primato è stata l’approvazione, a gennaio, di una proposta per garantire agevolazioni e benefici nella fruizione dei servizi pubblici solo alle famiglie iscritte in un registro comunale che comprende solo coppie sposate con figli ed esclude tutte le altre.
«Arcigay e le altre associazioni hanno sempre più ostacoli. Poi però ci sono un comune, una provincia, una regione, perfino ministri del governo che hanno dato il loro appoggio al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona del 2019», continua Piazzoni. «Una riunione di reazionari, ultraconservatori e sovranisti vari che per la prima volta si è potuto tenere in un paese occidentale con il placet delle istituzioni. Anche in questo caso rappresentavano tutti?».
LE MANI SULLA CULTURA
A Verona il centrodestra è andato anche oltre. La giunta ha approvato a maggio l’acquisto di uno stock di fumetti su Sergio Ramelli, il ragazzo neofascista ucciso nel 1975, realizzato dalla casa editrice Ferrogallico, vicina a Forza Nuova, con l’intento di regalarlo alle scuole. «Sergio Ramelli non viene ricordato quale vittima della violenza politica di quegli anni, bensì - non casualmente attraverso una graphic novel - per inoculare il virus della bontà di quelle idee totalitarie e sanguinarie che il fascismo portava con sé», ha protestato in un’interrogazione parlamentare il Pd.
Il caso dimostra quanto anche la cultura, con i libri e con gli spazi per gli eventi, sia un elemento chiave di questa guerra di simboli e valori. Sempre in Veneto l’attore comico Natalino Balasso è stato escluso dal cartellone del teatro Stabile, diretto dall’ex portavoce del governatore leghista Luca Zaia. «Questi della Lega si sono impossessati dello stabile del Veneto e hanno fatto un editto per non farmi lavorare nelle strutture pubbliche», ha denunciato Balasso su Facebook. Il suo non è un episodio isolato.
Come aveva raccontato L’Espresso alcuni mesi fa, le amministrazioni sovraniste hanno subito voluto dire la loro sui festival e sugli eventi del territorio, punendo quelli non graditi. All’Aquila, il sindaco di Fratelli d’Italia ha fatto saltare il festival degli incontri voluto dal ministero della Cultura per il decennale del terremoto e ha pubblicamente affermato che non avrebbe permesso gli interventi di Roberto Saviano e di Zerocalcare. La rassegna Vicino/Lontano di Udine invece, rea di organizzare il troppo internazionalista premio Terzani, si è vista ridurre a un terzo il contributo della Regione diventata “verde”. D’altra parte nel pantheon dei riferimenti leghisti, a Terzani si è sempre preferita Oriana Fallaci.
O, in tempi recenti, il filosofo sovranista Diego Fusaro, ospite d’onore con le sue letture musicate “Bibbiano, il gender è già fra Noi” del teatro comunale di Senago in provincia di Milano. Fortemente voluto dalla sindaca leghista. A novembre a Genova invece, in occasione del Festival dell’Eccellenza Femminile, Il regista Gabriele Paupini è dovuto entrare in scena per denunciare agli spettatori di essere vittima di una censura: «Dobbiamo censurare una scena di nudo presente nello spettacolo per pressioni politiche, la Lega non apprezza il nudo maschile, non si vogliono vedere piselli nell’aula magna dell’università di Genova», ha spiegato Paupini. Lo stesso partito che si vantava di “avercelo duro” si è riscoperto pudico.
Decidere chi può parlare e chi no è quanto successo anche a Pompiano, nel bresciano. Qui l’amministrazione a maggioranza Lega e Fratelli d’Italia ha negato allo scrittore Federico Gervasoni la biblioteca del comune per presentare il suo libro sul neofascismo locale. «È meglio lasciare fuori la politica dalla biblioteca, è un luogo di cultura». E la cultura, come si è appena visto, è una loro esclusiva.
ANTIMAFIA FUORI DAL COMUNE
Una sala, in questo caso il teatro comunale, è stata invece negata a Libera e a Don Luigi Ciotti. Il prete antimafia doveva parlare in un’iniziativa a Oderzo, vicino Treviso. Ma la sindaca leghista non ha concesso né patrocinio né spazi pubblici: «È fuori discussione la statura morale di Don Ciotti, ma sono altrettanto note alcune sue precise prese di posizione politiche», si è giustificata. «Se fossi riuscita a parlargli molto probabilmente non ci sarebbe stato alcun problema. Gli avrei chiesto di evitare di dare giudizi morali sulla scelta di Salvini di chiudere i porti». Se a Oderzo può parlare di lotta alla mafia solo chi è d’accordo con la linea politica del Carroccio, a Udine non si può discutere di fine vita. «Non posso permettere che spazi comunali ospitino eventi di propaganda di cose illegali», ha motivato così il sindaco leghista la mancata concessione di una sala comunale a Beppino Englaro e alla sua associazione “Per Eluana”. Era il 7 dicembre, due mesi dopo la sentenza della Consulta che ha stabilito che aiutare a morire non è sempre un reato. Un tema spinoso, su cui dovrebbe intervenire il Parlamento. Ma per il sindaco è meglio che non se ne parli.