Empatia, determinazione, fantasia: così Jacinda Ardern è diventata un’icona globale
Più di Angela Merkel e di Kamala Harris. Nell’anno che finisce la premier neozelandese è stata l’anti Trump: giovane, decisa. E di sinistra
Sulle tracce di Jacinda Ardern t’imbatti nelle orgogliose mucche di Morrinsville. Appaiono ad ogni angolo di questa cittadina della regione di Waikato, talvolta in forma di sculture multicolor, talvolta in carne ed ossa: qui dicono che la “Morrinsville mega cow” - versione neozelandese della vacca frisona - sia grande come “un edificio a due piani”. Perché è sempre stato il latte il prodotto-simbolo del luogo, l’architrave dell’economia regionale, il vanto di questa comunità rurale della North Island. Finché sulla scena nazionale - e poi mondiale - non è apparsa, appunto, Jacinda Kate Laurell Ardern. Che qui a Morrinsville è cresciuta, qui faceva la cameriera in un fish & chips, qui ha frequentato la high school, qui è stata eletta rappresentante studentesca imponendo un cambiamento di regole sulle uniformi femminili, aprendo agli shorts al posto della gonnella. Ed è qui che, tanti anni fa, sull’almanacco scolastico ha scritto che un giorno sarebbe diventata «molto probabilmente, primo ministro».
Oggi Jacinda è un’icona politica mondiale oltreché dei progressisti di ogni dove, a maggior ragione dopo il trionfo alle elezioni di ottobre, dalle quali non solo è uscita con un secondo mandato da premier costruito sul marmo, ma soprattutto ha fatto incassare al Labour una maggioranza assoluta, cosa che nel Paese dei Kiwi non si vedeva dal 1996. Il video del discorso della vittoria ha circolato vorticosamente ai quattro angoli del globo: «Viviamo in un mondo sempre più polarizzato», scandisce sorridente, «un luogo in cui sempre più persone hanno perso la capacità di vedere l’uno il punto di vista dell’altro. In questa nazione abbiamo dimostrato di essere capaci di ascoltare e di discutere. Alla fine, siamo troppo piccoli per perdere di vista la prospettiva del prossimo».
Ebbene sì: coesione invece di divisione, dialogo al posto dei muri. È per questo che, più ancora di Angela Merkel, la premier della piccola Nuova Zelanda (poco più di 5 milioni di abitanti), è apparsa nell’ultimo scorcio del 2020 l’assoluto anti-Trump, il suo speculare opposto: donna, pacata, ironica, progressista, empatica. Oltre alla mano sicura con la quale ha deciso con estrema rapidità i lockdown che hanno praticamente azzerato il coronavirus, il termine che viene usato più spesso nel descriverla è “empatia”, sin dalle inusitate copertine di Vogue e Time che ne fanno uno dei volti-simbolo di un’epoca in cerca di antidoti alla paura. Quella stessa empatia che subito dopo la strage di Christchurch la portò a indossare lo hijab in solidarietà con le 51 vittime, tutti cittadini islamici, quando nel suo discorso solenne in Parlamento ripeté: «Vi imploro: pronunciate forte il nome di chi è rimasto senza vita, non quello di chi gliel’ha tolta. Forse cercava notorietà, ma noi in Nuova Zelanda non gli daremo nulla. Nemmeno il suo nome».
Ma certo non sembrava essere il mestiere di premier e men che mai il ruolo di icona globale il suo destino. Nata a Hamilton nel 1980, è nella cittadina economicamente depressa di Murupara nella Baia dell’Abbondanza (nome coniato dall’esploratore James Cook) che la piccola Jacinda vive i suoi primi anni in una famiglia dal credo mormone. È lei stessa a citare Murupara nel suo primo discorso da parlamentare eletta: è lì, racconta, che è nata la sua «passione per la giustizia sociale», lì dove la disoccupazione era così alta da spingere molti al suicidio, dove anche la ragazza che le faceva da babysitter «era diventata gialla per colpa dell’epatite». Sempre negli anni ottanta, la famiglia Ardern si sposta di 150 chilometri a Morrinsville, dove il padre fa il poliziotto e la madre lavora come cuoca in una scuola. Da liceale, oltre a diventare membro di Amnesty, la ragazza esce spesso vincitrice dalle locali competizioni oratorie. Il preside - tal John Inger, interpellato dalla Cnn - la ricorda come «intelligente, vivace e persuasiva».
Ma Jacinda è soprattutto inquieta. E, in Nuova Zelanda, per una giovane con l’intenzione di allargare i propri orizzonti l’unica opzione possibile è Wellington, la capitale. Trecentomila abitanti, «un posto dove ogni caffè ha un’opzione vegana», chiosa sempre la Cnn. Terminata l’università di Waikato con una laurea in scienze della comunicazione, Jacinda - da fervente militante laburista qual è diventata da tempo, grazie all’esempio della zia Marie - riesce a ottenere un impiego come ricercatrice nell’ufficio di Helen Clark, leader del Labour neozelandese e premier. Ma forse non è questa la chiave di volta: è che in questo periodo, quando condivide un appartamento con tre amici gay, comincia a farsi domande sulla posizione della chiesa mormone nei confronti del mondo Lgbt. «Non riuscivo più a conciliare quel che vedevo come una discriminazione con quella fede, che per il resto era focalizzata sulla tolleranza e la gentilezza», dirà al New Zealand Herald nel 2017.
Il suo “periodo all’estero” di ventenne affamata di mondo lo passa a Londra, nientemeno che nello staff di 80 consiglieri dell’allora premier Tony Blair, che però non incontrerà di persona. Una corsa, quella di Jacinda: a 28 anni viene eletta presidente dell’Unione internazionale della gioventù socialista - ruolo che la farà viaggiare in diversi Paesi, tra cui Israele, Giordania, Algeria e Cina – e lo stesso anno si candida al Parlamento nella sua regione di Waikato. Che però è talmente “blu” - ossia una roccaforte dei conservatori del National Party – che una vittoria risulta impossibile: eppure, grazie al sistema elettorale che alloca 49 seggi su 120 su base proporzionale, entra comunque in parlamento diventandone il membro più giovane. Nel 2011 si candida di nuovo, ad Auckland, perdendo ancora, per soli 700 voti: anche questa volta entra in parlamento. «In città», scrivono i giornali, «diventa un volto noto: non solo per la politica, anche perché davanti al parlamento si diletta a fare la Dj per il festival di musica alternativa sul lungomare».
Fin qui il “becoming Jacinda”, un grande classico dello storytelling anglosassone. E, come in ogni grande storia di successo, non manca il colpo di scena degno di una serie Netflix, quando nel 2017, a sorpresa, si dimette il capo del Labour Andrew Little, sull’onda di sondaggi devastanti. Con la prospettiva di collezionare la quarta sconfitta elettorale in sequenza, il partito punta su Ardern, che a 37 anni si ritrova ad essere la più giovane leader laburista nella storia neozelandese.
Com’è come non è, nelle mani di Jacinda, grazie al linguaggio di Jacinda, con i modi di Jacinda, accade l’impensabile: sull’onda di quel che per la prima volta viene chiamata “Jacindamania”, i laburisti crescono di 12 punti rispetto alle elezioni precedenti, fermandosi al 37%. Meno del National Party al 44%, ma dato che nessuno dei due partiti ha la maggioranza per un mese si entra nell’arena delle coalizioni: Ardern mostra di avere qualità di mediazione inattese, e riesce a convincere due realtà lontanissime tra loro, i Verdi e i nazionalisti di New Zealand First a formare un governo con lei. A 37 anni, Jacinda è la più giovane premier nella storia del Paese.
«Non esistono una Jacinda privata e una Jacinda pubblica. C’è una sola Jacinda», giurano gli amici. E come prova citano la nascita, l’anno successivo, di sua figlia, Neve Te Aroha Ardern. A chi alza le sopracciglia dinnanzi al fatto che lei è la prima neozelandese a partorire nel pieno del proprio mandato (la seconda al mondo, dopo Benazir Bhutto), lei risponde serafica: »Ho sempre tenuto a mente che sono incinta, non incapacitata». La bambina (Te Hora vuol dire “amore” in lingua maori) nasce in un ospedale pubblico.
Il primo trauma, una crisi vera, arriva il 15 marzo 2019 con il sangue delle moschee di Christchurch ad opera di un suprematista bianco. Sangue al quale reagisce non solo annunciando un’immediata riforma della legge sul possesso delle armi, ma soprattutto «unendo compassione e determinazione», come scrive il New Statesman. E ancora: all’inizio della pandemia da Covid, Ardern impone misure restrittive definite dalla rivista Lancet «senza precedenti» in quanto a rapidità e rigore, e questo senza considerare i suoi collegamenti giornalieri in televisione, diventati un rituale per l’intero Paese in lockdown.
«È stata vista da molti come una sorella o una madre, o come il miglior amico», sostiene l’editorialista Ben Thomas. «Eccelle nei tempi di crisi», incalzano i media. Ma è anche capace di scelte-simbolo che danno l’idea di un diverso modo di pensare la politica: tra l’altro, apre il governo ai Verdi pur non avendone alcun bisogno dato che gode della maggioranza assoluta e sceglie la maori Nanaia Mahuta come ministro degli Esteri (orgogliosa del suo grande tatuaggio sul mento e discendente della defunta sovrana maori Te Arikinui Te Atairangikaahu). In generale, è la stessa Jacinda a definire «incredibilmente diversificato» l’Ardern II, in cui spicca un vicepremier apertamente gay, mentre il nuovo parlamento è composto quasi per la metà da donne.
Non è tutto oro che luccica, certo: i critici le rinfacciano che le promesse di lottare contro la povertà e contro il costo esorbitante delle abitazioni si sono impantanate. Lei si è data del tempo: ha indicato il 2030 come scadenza per dimezzare la povertà infantile, sradicare i tempi d’attesa all’edilizia popolare e arrivare al cento per cento di energia rinnovabile.
E se le promesse del domani dovessero solidificarsi, c’è chi la immagina con un futuro da leader globale, magari come segretario generale dell’Onu: «In tempi di lavoro in remoto, servizi digitali e pandemie, la posizione isolata della Nuova Zelanda potrebbe rivelarsi un boom. In tempi di un’economia da Green New Deal, il Paese può diventare leader nella decarbonizzazione. In tempi in cui la bilancia del potere globale sarà determinata sempre di più nell’area indo-pacifica, può giocare un ruolo che va ben oltre le sue dimensioni», suggerisce Jeremy Cliffe sul New Statesman.
Le mucche di Morrinsville sono lì a dimostrarlo: piccolo e grande, piccoli gesti e respiro globale, sembra essere il modus operandi della premier neozelandese. Quando le hanno chiesto perché abbia deciso di lanciare da qui la campagna elettorale, ha risposto: «Così mamma e papà possono fare da babysitter alla mia bambina».