Le piattaforme social e di condivisione con i loro algoritmi aiutano la radicalizzazione degli utenti, portandoli su contenuti che inneggiano odio e violenza. E nonostante gli allarmi dei ricercatori, gli interventi sono marginali

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Bringing people together recita la campagna madre di Facebook, che da più di un decennio permette a Mark Zuckerberg di capitalizzare contenuti multimediali basati sulle attività online dei suoi utenti. Ma dopo anni di ricerche interne e milioni di dollari investiti nel monitoraggio di contenuti illeciti, un team di investigatori ha confermato i sospetti di attivisti e ricercatori indipendenti. Le accuse rivolte a Facebook sono di contribuire alla radicalizzazione di molti utenti, esponendoli a contenuti che inneggiano all’odio e alla violenza di destra.

Lo stesso Zuckerberg e il suo braccio destro alle politiche pubbliche Joel Kaplan, già consigliere alla Casa Bianca con Bush, hanno però glissato sulle denunce riportate dal loro staff, ripetendo un copione già letto nel 2018, quando Kaplan si mostrò ostile a cambiare alcuni termini di engagement tra gli utenti per timore di danneggiare il pubblico conservatore. L’intento umanista di Zuckerberg di “avvicinare persone e idee” ha infatti da sempre parteggiato per una filosofia libertaria cara tanto ai Repubblicani quanto all’alt-right, rendendo esplicite le interazioni degli estremisti di destra sulla piattaforma, da giorni in aumento in seguito alle rivolte antirazziste per l’omicidio di George Floyd.

L’analista di Facebook Monica Lee, nella sua ricerca sulle elezioni statunitensi di metà mandato del 2018, aveva denunciato interazioni tra partiti politici e profili iperattivi sui social che condividevano contenuti estremisti e razzisti, dimostrando in seguito che il 64 per cento di adesioni a gruppi suprematisti avviene tramite l’esposizione degli utenti a contenuti di recruiters dell’alt-right.

Indagine che però Facebook ha deciso di ignorare: la radicalizzazione online verrebbe anzi rinforzata dagli algoritmi di raccomandazione che consigliano gruppi a cui l’utente può iscriversi, o dalla funzione “Scopri”, che espone a contenuti consigliati da profili con opinioni simili tra loro.

L’architettura di Facebook si basa sulla produzione di pubblicità targettizzate sul profilo degli utenti, nutrendosi di interazioni e favorendone la riproduzione. È anche il caso di Youtube, i cui algoritmi di raccomandazione “scelgono” il 70 per cento dei contenuti che consumiamo passivamente. Anche la piattaforma video proprietà di Google è accusata di spingere migliaia di giovani tra le braccia di gruppi xenofobi, omotransfobici e neonazisti tramite i suoi algoritmi, risultando la prima piattaforma scelta dall’estrema destra per reclutare adepti online. I termini d’utilizzo sui contenuti d’odio delle due piattaforme sono facili da eludere, e bastano poche modifiche al nome di una pagina o di un canale per aggirare il ban.

Come Youtube, anche Facebook sembra sminuire il fenomeno. Liquidando le accuse di favorire la riproduzione di hate speech come "polarizzanti" e "sensazionalistiche", il Ceo di Facebook conferma la simpatia reciproca con i Repubblicani, che in questi giorni soffrono le censure ai tweet di Trump inneggianti la repressione dei manifestanti. Offrendo a Trump una macchina elettorale già collaudata e sfidando Twitter sul fact-checking, Zuckerberg conferma il mantra liberal per eccellenza: la libertà d’espressione deve essere preservata. E monetizzata; poco importa se a beneficiarne sono anche i suprematisti bianchi.

Ma oltre il Primo Emendamento c’è ben altro, e le tensioni tra Trump e l’ad di Twitter Jack Dorsey riflettono solo in parte il vulnus della narrativa liberale sulla libertà d’espressione. La radicalizzazione di molti giovani è dovuta da un complesso intreccio di fattori economici e sociali, a cui Youtube e Facebook hanno contribuito combinando un modello di business che premia contenuti provocatori da clickbait, ad algoritmi che guidano gli utenti su binari personalizzati per tenerli incollati agli schermi. Non importa cosa guardi, basta che lo guardi. Gli algoritmi Reinforce di Youtube sviluppati da Google Brain significano milioni di ore di riproduzione in più che accettiamo di guardare senza accorgercene.

Spesso i profili estremisti più seguiti - come l’anarco-capitalista Stefan Molyneux, o Alex Jones di Infowars - sono poi a pochi click dai canali più mainstream che su Facebook e Youtube hanno svecchiato e reso pop il nazionalismo bianco. Tra di loro Jordan Peterson, che con i suoi show motivazionali antifemministi ha dato il via a diversi movimenti maschilisti e misogini. Breitbart News, l’ex pagina di informazione pro-Trump di Steve Bannon, che crea da sola più interazioni online dei quattro maggiori quotidiani americani, posta materiale xenofobo e ultranazionalista, ma risulta fonte verificata tra le Facebook News.

In un momento in cui il 60 per cento degli americani considera i social media la causa principale della frattura del paese, la scelta di Zuckerberg e Kaplan di archiviare le ennesime accuse dà un’idea delle priorità della piattaforma. Dimostrando ancora una volta quanto sia fragile la presunta neutralità algoritmica.