Tendopoli, baracche, campi coperti da container fatiscenti. Dove immigrati e braccianti vivono ammassati, pronti a essere sfruttati. In Italia come in Europa sono nascosti, rimossi. Ma per smascherare l'ipocrisia basta alzarsi in volo

Campi3-jpg
Ciò che non si vede da terra si vede dal cielo. Se ad altezza-uomo è consentita la menzogna, basta planare sopra la città per vedere la realtà che si dispiega nella sua evidenza. L’altezza riduce al silenzio la faziosità, mostrando la topografia del ghetto. È l’urbanistica dell’osceno: aree lontane dai centri abitati, fuori dalle mura della città, separate, come separati erano i lager nazifascisti, che nascevano al di là dell’ultimo villaggio, nascosti nelle campagne, nelle steppe.

Il ghetto è mimetizzato in primo luogo per celare la geografia dell’apartheid. Ma in secondo luogo per nascondere il fatto che la ragione della sua esistenza è in una legislazione europea che si oppone all’inserimento legale dei migranti e dei richiedenti asilo. Chi migra non è mai felice di farlo: di lasciare la famiglia, il paese, la lingua. Se lo fa è perché ne è costretto: fuggire da guerre (spesso create o alimentate dai paesi di approdo dell’Unione europea), da condizioni economiche avverse (spesso create dai lasciti del colonialismo dei paesi di approdo), da carestie (spesso dovute a cambiamenti delle condizioni climatiche generati anche dal capitalismo frenetico dei paesi di approdo), da persecuzioni (spesso dovute a regimi appoggiati dai paesi di approdo). Ma i paesi di approdo, che sono dunque corresponsabili delle migrazioni, chiudono i porti e i confini, e rifiutano di accogliere il frutto, o lo scarto, delle proprie politiche. Ecco che nasce il ghetto, in prossimità di quella chiusura. Il ghetto cresce, come un bubbone, sulla faglia che separa il nord dal sud del mondo. È la cicatrizzazione, proteiforme e sempre crescente, della ferita causata dall’ingiustizia della chiusura.
campi4-jpg

Ecco che il ghetto, per sua natura, sta un passo prima del confine, un gradino prima della salvezza. Il suo abitante è il respinto, o colui che è in attesa di un responso sulla richiesta di asilo politico. Non ti potrai salvare, è il messaggio dei paesi di approdo - non ora, e forse mai - ma allo stesso tempo non sarai più nel tuo paese di origine, e sarai condannato per sempre a vivere nella sospensione del ghetto. Starai, finché riuscirai a rimanere in vita o finché non ti stancherai di aspettare, nel limbo. Vivrai in purgatorio, proprio tu che, musulmano, sikh, ebreo, induista, buddista, il purgatorio non sai cos’è. La tua stessa vita, diventerà purgatorio. Così è per i ghetti più grandi e celebri: quello di Calais, “la Giungla”, tra la Francia e l’Inghilterra; quelli di Ceuta e Melilla, al confine tra Spagna e Marocco; quello di Moira, nell’isola di Lesbo in Grecia, al confine tra Europa e Medioriente, che ospita tredicimila migranti e mille minori; il campo ufficiale di Velika Kladusa, in Bosnia, costruito dall’Iom, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, con fondi dell’Unione europea, al confine tra Europa e rotte migratorie continentali dal Medioriente, e più volte criticato dal governo croato per l’eccessiva vicinanza al confine.
[[ge:rep-locali:espresso:285346152]]
Ci sono tre i tipi di ghetto, come spiegano le ricercatrici degli insediamenti temporanei, Elena Tarsi e Diletta Vecchiarelli: gli insediamenti pianificati, tendopoli istituzionali costruite dai ministeri degli Interni; l’insediamento informale: baracche, fabbriche o casolari occupati; e una forma ibridata (baraccopoli e campo container), che nasce nel momento in cui un insediamento pianificato decade e sfocia nell’informalità, mostrando il fallimento di interventi mossi in un’ottica di emergenza anziché in un’ottica strutturale.

E ognuno di questi gironi, nei mesi e negli anni, finisce col mostrare la vita che, nonostante tutto, continua, e prende a ingrandirsi, e il campo provvisorio diventa un villaggio, poi un paese, infine una città, e la cicatrice sulla faglia tra nord e sud del mondo si ingrossa a dismisura, diventa un centro di vita abitato da una popolazione sempre crescente. Così, la maggior parte delle baracche viene usata come dormitorio, ma altre sono adibite a servizi, ad attività commerciali (ciclo-officina, sala tv, sartoria, bazar), ad attività alimentari (macelleria, piccoli shop), a luoghi di culto, moschee, templi e chiese cattoliche. All’interno ci si muove in bicicletta, a volte esiste un servizio di trasporto auto-organizzato (un “taxi” a basso costo) che garantisce ai migranti/abitanti del limbo la possibilità di spostarsi nelle zone limitrofe.
Campi2-jpg

Ma questo avviene soprattutto in Italia dove, oltre alla legislazione che si oppone all’inserimento legale dei richiedenti asilo (legge Bossi-Fini, Decreti sicurezza), si unisce una burocrazia inefficiente che allunga a dismisura i tempi di risposta alle richieste di asilo, e un tessuto produttivo sempre più permeabile all’illegalità e alla criminalità, e pronto a recepire forza lavoro da sfruttare senza diritti sindacali e in condizioni di schiavitù. Ecco che dal ghetto, nascosto e rimosso, il migrante/abitante del limbo può uscire, se richiesto, per lavorare come schiavo. Sono i “ghetti a pagamento”, come li definiscono Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet, leader del primo sciopero di braccianti stranieri in Italia, in “Ghetto Italia”: luoghi in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, «nemmeno un medico in caso di bisogno». È, dicono, «un complesso sistema criminale in cui a rimetterci sono solo i braccianti, costretti a pagare cifre impensabili per vivere stipati in baraccopoli insalubri, lontano da qualsiasi forma di civiltà». Ecco che il migrante/abitante del limbo diventa il salvagente dell’agricoltura italiana, la vittima che paga per essere sfruttata, compiendo il circolo maligno del paradosso e dell’ingiusto. 

In Italia sono centinaia, da nord a sud: dalla Puglia (San Severo, Capitanata, Nardò) alla Campania (nel casertano, nella Piana del Sele), dalla Calabria (San Ferdinando, Sibari e piana di Gioia Tauro), al ragusano e al trapanese in Sicilia, da Metaponto e alto Bradano in Basilicata fino al Lazio e poi al Nord, in Piemonte, a Saluzzo, fino al Trentino. Sorgono vicino ai campi e alle aziende agricole, vicino all’offerta di lavoro stagionale. Finisce a viverci chi ha fatto richiesta di asilo politico ed è in attesa, e aspetterà anche due o tre anni; oppure chi arriva in uno dei porti di identificazione, gli hotspot, e in base al Decreto sicurezza viene respinto ma non rimpatriato, né inserito nei Centri per i rimpatri, che sono sovraffollati, e si vede presentare l’intimazione di lasciare il territorio nazionale. Se il ghetto non esistesse, come migliaia di altri come lui senza alternative, finirebbe a vivere per strada. Entrambe le categorie sono al di fuori del diritto e quindi ricattabili, come non si stanca di ripetere Aboubakar Soumahoro, e paiono disegnate per incontrare le necessità dei caporali dell’agricoltura.

Chi possiede la terra sta fermo, è chi la lavora a doversi spostare. Per quanto possa apparire banale, è su questa costante del lavoro agricolo che si radica la cifra principale dell’assoggettamento. Un tempo i braccianti condividevano con il caporale uno stesso orizzonte sociale, la stessa lingua; potevano provenire dallo stesso paese, o dalla stessa provincia, dalla stessa regione. Lo spostamento del bracciante verso la terra c’era ma, rapportato a oggi, era minimo. Si stabiliva, con il caporale, e quindi con il proprietario terriero, un rapporto di forza codificato. Oggi avviene qualcosa di profondamente diverso, con i migranti/abitanti del limbo: i braccianti stranieri, che siano centroafricani, nordafricani, esteuropei o sudamericani, percepiscono le campagne italiane come “terra di frontiera”, con cui non hanno niente in comune: non ne parlano la lingua, non ne conoscono le leggi scritte, né quelle non scritte.

C’è, per il bracciante “globalizzato” e migrante, una lontananza siderale dal tessuto urbano e sociale, e questa lontananza è garantita proprio dall’isolamento del ghetto. Ed è questa lontananza, questo isolamento, che genera lo stato di “soggezione continuativa”, per come viene definita dall’articolo 600 del nostro Codice penale: «La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona». Tre euro l’ora per dieci o dodici ore di lavoro al giorno.
campi1-jpg

La chiamata discrezionale, e i giorni lavorativi non sono mai più di cinquanta in un anno. Il trasporto, l’acqua, il cibo, i vestiti e l’alloggio nel ghetto sono da pagare al caporale. Che, di solito ma non sempre, è solo un gradino sopra il migrante/abitante del limbo, e proviene dai suoi stessi paesi: Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Congo, Sudan. Riproducendosi su larga scala, per migliaia e migliaia di braccianti/migranti, questa “soggezione continuativa” diventa elemento strutturale di gran parte del lavoro agricolo del nostro Paese.

È, senza mezzi termini, schiavitù. Dentro il ghetto il controllo da parte del caporale è sempre più capillare, e giunge fino alle sfere più intime della vita del bracciante/migrante, che arriva a dipendere in tutto da lui, non avendo una rete sociale, né un tessuto urbano, su cui fare riferimento. Il controllo arriva fino al cibo e agli alloggi, con danni alla salute: malattie dell’apparato digerente e malattie infettive, malattie osteomuscolari e del tessuto connettivo, dovute alle terribili condizioni lavorative e igienico- sanitarie del ghetto. Chi prova a ribellarsi muore. Solo per citare alcuni casi, i braccianti maliani morti nel “gran ghetto” tra Rignano e San Severo, in Puglia; i centodiciannove braccianti polacchi “scomparsi”, dal 2000 al 2006, durante la raccolta del pomodoro, sempre in Puglia; Soumayla Sacko, che viveva nel ghetto di San Ferdinando, in Calabria, ucciso da una fucilata il 2 giugno del 2018.

Il ghetto è indispensabile, per salvare la dignità della città e per salvare la nostra agricoltura. Come ha scritto Alessandro Leogrande: «Fuori dal ghetto non ci sono gli ingaggi dei caporali». Chi arriva in Italia ed è posto fuori dalla legalità da leggi ad hoc, se vuole lavorare non ha alternative, in un mercato occupazionale che vive una crisi senza precedenti. «Sei vuoi vivere devi andare al ghetto. Fuori, nessuno ti darà lavoro”, è il mantra tra i migranti. Il ghetto deve continuare a esistere, ma senza essere visto.