«L'azienda funziona: ma nessuno si interessa di noi». Viaggio nell'altra Ilva, a Genova
Tra i mille operai degli storici impianti di Cornigliano, davanti al ritorno dell'acciaio di Stato e il futuro che è una nebulosa
Tra gli operai delle acciaierie di Cornigliano, sul mare di Genova, mille chilometri più a nord dagli altoforni di Taranto, il momento confuso della (fu) grande siderurgia italiana lo si spiega con il naso all’insù, lo sguardo rivolto all’insegna aziendale, a trenta metri d’altezza sulla facciata della prima officina. «Negli ultimi due anni si è lavorato quasi più lassù che in fabbrica», si sorride amaro al cambio di turno. «Prima c’erano le quattro lettere di Ilva, poi è spuntato un telone con il nuovo logo, poi ancora - si visualizzano così le svolte societarie recenti - ci hanno montato l’intera insegna di Arcelor Mittal. Ora è appena un anno che è su e chissà cosa ne sarà: non lo sanno al governo, figuriamoci noi».
Anche dopo la firma che a inizio dicembre ha sancito il ritorno dell’acciaio di Stato, con l’accordo tra Arcelor Mittal e Invitalia, la società del Mef entrata al 50 per cento nelle quote dell’azienda, il futuro dell’operazione pare del resto ancora nebuloso, e preoccupa anche e soprattutto qui. In questa altra Ilva rimasta all’ombra del dibattito sullo stabilimento pugliese, dove i lavoratori scendono in piazza, occupano, coinvolgono nelle proprie mobilitazioni i metalmeccanici delle altre industrie della città. E dove la parola d’ordine, in questo gennaio caldo per la rinascita della siderurgia nazionale, ha il sapore di tempi passati. «Serve lottare e si lotta, l’unico modo per farci considerare».
Sono anni, in realtà, che le acciaierie che furono Ansaldo, poi Italsider e poi ancora Ilva, prima statali e poi private, a lungo le più importanti del Paese, rimangono nel cono d’ombra dell’epopea tarantina. «Di qua è passata la storia, dell’azienda e del Paese», sentenziano con orgoglio i più vecchi della fabbrica, citando Guido Rossa e la recente visita di Papa Francesco. A monopolizzare gli sguardi e le preoccupazioni di trattative e governi, però, sono più che altro le vicende giudiziarie e le battaglie politiche di Taranto. Principalmente per una (inevitabile) questione di “peso”, nell’ex Ilva del sud in fondo si lavora in 7mila di più, 8mila contro mille, e a Cornigliano l’area a caldo si è fermata ormai quasi 16 anni fa. Ma forse non solo. «Siamo più piccoli, ma abbiamo anche il problema di saper dare molto più fastidio di tutti gli altri, e la cosa non ci aiuta», riflette Bruno Manganaro, segretario della Fiom a Genova. «Negli ultimi tempi, per non venire schiacciati, abbiamo sempre dovuto mostrare i muscoli. Abbiamo occupato gli stabilimenti, sfilato per la città durante l’emergenza Covid, scioperato per dieci giorni per evitare che il lavoro si fermasse. Sembra roba del secolo scorso, ma evidentemente ce n’è ancora bisogno».
Se a Taranto le ultime, grandi agitazioni operaie si sono arenate sulla delicatezza della questione ambientale e un rapporto sempre più difficile tra la fabbrica e la città, nel ponente genovese la regola pare insomma molto più chiara. «La lotta paga, sempre». Una convinzione dovuta alla necessità, «perché se non alzi la voce non esisti, ormai, - è un mantra recitato a tante voci, da queste parti - sul lavoro come altrove». E insieme una questione di storia sindacale, in parte pure di «scuola di formazione», spiega Franco Grondona, memoria storica della fabbrica, per quasi vent’anni alla guida della Fiom provinciale. Nelle officine dove si dice con orgoglio di aver sconfitto il terrorismo, il colore di cuori e cervelli «è ancora il rosso, quello vero». Si tiene a sfatare «il falso mito degli operai che votano Lega, tutte balle, almeno qui», si ammette piuttosto che «la gran parte degli operai oggi non vota, vince l’astensionismo, non si fidano più». E la scuola è ancora quella delle grandi lotte operaie del passato, «la stessa di quando sono entrato in fabbrica io, nel 1971, - ricorda Grondona - quando la sezione interna del Pci aveva oltre mille iscritti, e lo stabilimento era una città».
Che sia questione di geni o di cultura, quello che è chiaro è che è stato questo spirito, a portare a Cornigliano piccole e grandi vittorie sindacali, le più recenti e le più lontane. Nei mesi della prima ondata di contagi da coronavirus, nello scorso maggio, il primo corteo del post lockdown aveva costretto l’azienda a tornare sui propri passi sul ricorso massiccio alla cassa integrazione Covid. «Ci sono le commesse, e l’azienda non vuole farci lavorare», si spiegava allora la protesta. Lo stesso è successo a novembre, il primo giorno di zona arancione anti Covid in Liguria, con una manifestazione che ha attraversato la città per scongiurare serrate e licenziamenti. La madre di tutte le conquiste, da tempo, è invece l’accordo di programma che a Genova regola da 15 anni i rapporti tra le governance dell’ex Ilva, istituzioni e sindacati. Il patto che ha deciso una volta per tutte la chiusura dell’altoforno, nel 2005, ma vincolando la svolta dell’addio alla lavorazione a caldo al mantenimento dei livelli occupazionali e salariali della forza lavoro. Un'«assicurazione sulla vita», viene definita, che non ha però risparmiato la fabbrica dall’incertezza di questi tempi.
I punti interrogativi che ancora si porta dietro l’“accordo di investimento” tra Arcelor Mittal e Invitalia, ad oggi, sono ancora molti. Si conoscono bene i dettagli della ristrutturazione societaria, meno quelli del piano industriale. Le ricapitalizzazioni statali previste da 400 e 680 milioni sono entrambe vincolate, la prima al parere dell’antitrust europeo (atteso entro il 31 gennaio), la seconda (entro maggio 2022) al dissequestro dell’area a caldo di Taranto. Entro la fine di gennaio dovrebbero essere raggiunti gli accordi sindacali, ma al momento Fim, Fiom e Uilm sanno «poco o nulla» in tema di esuberi, strategie, prospettive, e l’ultimo incontro in videoconferenza tra le parti, lo scorso 22 dicembre, è stata - definizione del fronte sindacale - «una presa in giro». E mentre per Taranto si conosce l’intenzione di investire su un nuovo forno elettrico, «Cornigliano e Novi Ligure, il secondo stabilimento Arcelor Mittal del nord, ancora una volta vengono in subordine», accusano dalla Fiom. «Un atteggiamento che fa male, scoraggia, allontana i lavoratori che trovano un’alternativa», e insieme spiega tante cose. Lo stato dell’acciaieria genovese, ad esempio, come il furore con cui le sue mille tute blu ne difendono storia, lavoro e futuro.
Seppur parente ormai lontana della città nella città che fino agli anni Ottanta faceva del ponente genovese la Manchester d’Italia, oggi l’ex Ilva di Genova è del resto l’unica fabbrica italiana a produrre banda stagnata. Il suo presente sono due linee di zincatura, una delle quali praticamente nuova, e quella per la latta. Passano dalle sue banchine i lavorati per i mercati dell’auto, degli elettrodomestici, per lo scatolame dell’industria alimentare. «Produciamo e potremmo produrre molto di più», è la convinzione di tutti, tecnici e operai, ed è vero perché qui, ad esempio, si copre neanche un quarto del fabbisogno di banda stagnata del Paese. «Avremmo aree, energie, esperienza per lavorare, e pure bene, sulla base di prospettive reali - sostengono i lavoratori - e invece l’impressione, in questi ultimi due anni, è che chi l’ha gestita l’abbia trattata più che altro come un bene da liquidare».
Oggi quello di Cornigliano è «un potenziale umiliato», sostengono i sindacati genovesi, e inoltrandosi per le strade interne alla fabbrica si capisce il senso della definizione. Rimane fermo la gran parte del parco mezzi per il trasporto tra le officine, ad esempio, perché «manca il gasolio». Cedono le strutture (è successo per ultima ad una torre faro sulle banchine, il mese scorso, per fortuna senza conseguenze tragiche), perché non ci sono i soldi per metterle in sicurezza. Delle aree dismesse, poi, impressiona la desolazione. «La nuova gestione su questo stabilimento non ha investito un euro - incalza Armando Palombo, rappresentante di fabbrica, a Cornigliano da più di trent’anni - Da una parte c’è il mondo virtuale dei grandi annunci e delle trattative, dall’altra la realtà di un mondo che va a pezzi. E chi lavora in questo settore sa benissimo cosa vuol dire non fare manutenzione sugli impianti: vuol dire farli morire».
Altrettanto simbolica, poi, è la condizione dei 260 operai genovesi (1700 a livello nazionale) che da 16 anni vivono nel limbo dell’amministrazione straordinaria Ilva. Cassintegrati passati ai lavori socialmente utili con la ristrutturazione di metà anni Duemila. «Esuberi puri, di fatto, che non hanno più voluto reintegrare né i Riva, né i commissari, né Arcelor Mittal, e nessuno rivorrà anche questa volta», - racconta Luciano Costella, entrato in fabbrica neanche ventenne nel 1989 e in questo limbo dal 2005 - «un paradosso che dovrebbe mettere in guardia tutti». Sia perché sul loro destino, al momento, nell’accordo di dicembre non sembrano esserci certezze, «solo vaghe promesse». «Sia perché non si creda - riflette l’operaio - staranno meglio i tanti altri che, almeno fino al 2025, quando si dovrebbero raggiungere gli 8 milioni di produzione a pieno organico, sono destinati a rimanere fuori. La cassa lascia vivere ma uccide piano piano, condanna a vivere alla giornat a, senza prospettive, in balia delle onde».
E se non è chiaro ancora su quale tipo di ammortizzatori potranno contare i migliaia di lavoratori che paiono destinati a rimanere in cassa integrazione fino al 2025, a livello complessivo, ancora meno si sa che tipo di rilancio potrebbe avere Genova. «Cornigliano, che si sappia, nell’accordo non è nemmeno menzionata - riprende Manganaro - Quando invece uno stabilimento del genere dovrebbe essere parte centrale del programma».
Le idee per potenziare “l’altra Ilva”, in fondo, ci sarebbero. Così come ci sarebbero gli spazi per farlo, anche se le aree al momento inutilizzate fanno gola ai molti che le vorrebbero vedere riassegnate, per prima l’amministrazione cittadina. «Si è parlato di forni elettrici, di laminatoi moderni, ma basterebbe anche relativamente poco, il potenziamento del ciclo latta, e davanti a noi avemmo delle praterie, non un mercato - è la riflessione - Un governo serio dovrebbe considerarla una strategia per il Paese, ma fidarsi di questo governo, tanto più se tratta con manager come quelli che ci hanno portato al punto più basso della nostra storia, solo 3 milioni di tonnellate di produzione e conflitto sindacale alle stelle, è ogni giorno più difficile. Siamo solo all’inizio di una lunga salita piena di curve, e ad ogni tornante si rischia di rovinare giù. Servirà lottare, e lotteremo ancora».