Di buone ragioni per dire di no al partito di Silvio Berlusconi ce ne sono anche troppe. La prima è che l'uomo è politicamente vecchio, come la brutalità della cronaca spesso sottolinea. Giovedì 21 ottobre, parlando con Antonio Di Pietro, Bettino Craxi ricordava quanto siano intimi i suoi rapporti con Sua Emittenza, «essendo stati io e mia moglie padrino e madrina delle sue due ultime figlie, e mia moglie testimone delle sue ultime nozze». Mercoledì 3 novembre lo stesso Berlusconi ha dovuto rivangare, davanti alla Corte d'assise di Roma, la penosa storia della sua adesione, nel 1978, alla loggia P2 di Licio Gelli («Il mio grado era quello di apprendista»). Per uno che proclama di voler «aiutare il paese e le forze politiche a individuare uomini nuovi», né la collaborazione con Craxi né quella con Gelli sono referenze esaltanti.
La seconda ragione è che le idee politiche di Berlusconi sono così superficiali da risultare inservibili. Esse muovono da un'analisi neo-catastrofista della situazione italiana (che è condivisa dal sempiterno Craxi, altro ottimista pentito, e ben illustrata dalle più recenti copertine di “Panorama”); ma, invece di indicare obiettivi chiari e terapie forti, si esauriscono in una congerie di luoghi comuni. Ecco perciò il mercato e la famiglia, ecco le privatizzazioni e il buon governo, ecco tutto un pomposo catalogo dell'ovvio... Da Berlusconi, il tam tam dell'aria fritta si estende a tutti gli infelici che condividono la sua parola d'ordine, «né con la Lega né con il Pds». E fa tristezza vedere vecchie volpi del pensiero politico, come l'ex comunista Saverio Vertone, che recitano atti di fede nel liberismo con l'aria assorta di chi sta giocando la carta decisiva.
Terza ragione: il connubio di affarismo e politicantismo che il partito di Berlusconi configura. Già è grave che un movimento politico nasca sulla base non di un'opzione ideale, ma - come dimostra l'organigramma dei club Forza Italia - di un vincolo di appartenenza aziendale. Peggio ancora se l'azienda domina il mercato delle notizie. «Ritengo sbagliato che faccia politica un imprenditore che ha il controllo di un settore amplissimo dell'informazione, e quindi è in possesso di strumenti che influenzano le scelte dell'elettorato», ha dichiarato al "Corriere della Sera" mercoledì 10 novembre Mariotto Segni. «Sarebbe estremamente negativo e pericoloso che Berlusconi, direttamente o indirettamente, entrasse nell'agone politico». Ben detto: anche indirettamente. Cioè attraverso i club Forza Italia, l'associazione Alla ricerca del buongoverno, e altre simili strutture-schermo.
Già tutte queste ragioni sconsigliano di seguire il cavaliere nelle sue avventure politiche. Ma ce n'è un'altra che è enormemente più importante, anche se non viene mai dibattuta. È l'incredibile disinvoltura con cui si dà credito alla favola berlusconiana secondo cui il partito berlusconiano non esiste; e, parallelamente, si tenta di zittire, con i sistemi più sofisticati, chiunque osi affermare che invece il problema c'è. Il partito di Berlusconi, insomma, è oggetto di un gigantesco tentativo di minimizzazione, di occultamento, di rimozione collettiva. Ed è proprio questo a farne un concentrato di sotterfugi, e a conferirgli - nonostante la bontà delle intenzioni dichiarate - un aspetto losco.
Martedì 2 novembre al Maurizio Costanzo Show è andato in onda un elegante balletto con Enrico Mentana (secondo il quale non c'è un partito, bensì solo «prove tecniche di fiancheggiamento elettorale») e Vittorio Sgarbi («Il partito esiste. E saremo sul fronte fino all'ultimo»). Anche Segni, pur consapevole della pericolosità del partito, continua a dipingerlo come una mera ipotesi: «Se, come dicono alcuni, Berlusconi si mettesse sulla strada di fare un partito o un movimento...». Non prendiamoci in giro, amici. Berlusconi il suo movimento lo ha già creato da un pezzo, ed è stato lui stesso ad annunciarlo. Al suo settimanale "Epoca" un mese fa ha detto: «Collaboro ad alcune iniziative che sono già in corso, animate da miei amici». Quali iniziative? Non solo il fantomatico buongoverno di Giuliano Urbani, ma soprattutto (parole sue) «Forza Italia, un'associazione nazionale di club nelle varie città italiane, che tende a suscitare nella gente una partecipazione all'impegno civile, e politico... I club terranno riunioni settimanali, saranno previste delle convention regionali e nazionali, svolgeranno attività sociali». Dei club Forza Italia, che sono ramificati in tutto il paese e si agitano dietro così intensi programmi di lavoro, "Epoca" ha già pubblicato anche il marchio.
Poiché questo è un paese di azzeccagarbugli, dove volentieri si nega anche l'evidenza, può ben sorgere l'appassionante questione terminologica: i club Forza Italia sono o non sono un partito? Anche qui, caro Mentana, caro Segni, carta canta. In un documento sull'attività dei club, pubblicato oltre un mese fa da "Repubblica" e mai smentito, si assegnano ai militanti (definiti "volontari") le seguenti mansioni: «Propaganda orale, distribuzione di materiale, prenotazione locali pubblici per riunioni, attacchinaggio, organizzazione banchetti per raccolta firme, accordi con commercianti per vetrine e ospitalità merchandising, distribuzione materiale merchandising, servizio telefonico, contatti con burocrazia locale, servizio d'ordine, mansioni d'ufficio (segreteria, archivio, fotocopiatura, corrispondenza, varie statistiche, propaganda telefonica), commissioni varie». Inoltre, i club «scrivono ai giornali per esprimere la necessità di un radicale cambiamento della vita politica»; «individuano persone comuni che possano ben figurare intervenendo a trasmissioni televisive in stretto contatto con la struttura Selezione Presenze tv»; «organizzano conferenze e dibattiti anche per la presentazione di materiali inviati dal Centro»... Ovviamente, «l'attività dei volontari coprirà sia la fase preelettorale sia quella elettorale». Se tutto questo non è un partito, Dio solo sa cos'altro è.
Che Berlusconi a volte esalti i suoi club, e a volte invece eviti di parlarne, non sorprende. Rientra negli alti e bassi dei suoi rapporti con i politici: quando vuole spaventarli accelera, quando cerca di blandirli frena. Del resto, nell'arte di trastullarsi con le parole egli è un maestro. Per lui, che a furia di piagnistei sulla slealtà dei concorrenti ha costruito un monopolio, creare un partito facendo finta di non crearlo è un gioco da ragazzi. Meno facile è spiegare perché l'esistenza del partito viene ignorata o negata da tutti.
Fra i politici di professione, c'è chi sull'aiuto dei club Forza Italia fa conto, e nell'attesa dei preziosi attacchinaggi, ovviamente, tace. Poi ci sono quelli che da Forza Italia non avranno mai nemmeno lo straccio di un volantino, e lo sanno, ma ugualmente tacciono. Perché? Alcuni, nella loro superbia di casta, ritengono che Berlusconi sia un dilettante, come l'Umberto Agnelli del 1976, e che le sue iniziative politiche siano condannate al fallimento; ma sbagliano, perché l'uomo è molto più scaltro e forte di loro. Altri aggiungono spiegazioni tecniche: in campagna elettorale, dicono, sono le tv locali a contare di più, non le reti nazionali; ma anche questi sbagliano, perché è lo stesso Berlusconi a far sapere quali vincoli di affari, e di riconoscenza, le emittenti locali abbiano con lui («A queste tv diamo il massimo dei contributi possibile mettendo a loro disposizione, a prezzi vicini allo zero, la nostra library...»).
Fra gli osservatori, molti non solo non parlano del partito di Berlusconi, il che è un loro diritto, ma addirittura mostrano insofferenza verso chi ne parla. E questo appare invece quanto meno strano. In qualsiasi paese del mondo, se il padrone assoluto di un colosso multimediale di quelle proporzioni scendesse nell'arena politica, tutti i giornali indipendenti ne parlerebbero di continuo. In Italia molte degne persone, se qualcuno (per esempio "L'Espresso") critica Berlusconi, saltano su a dire: attenzione, questa non è una polemica, è solo un episodio di una squallida guerra fra potentati economici. «Mi chiedo come mai i giornalisti dei due gruppi non rifiutino questo modo d'essere», scrive per esempio Emanuele Macaluso; e non si accorge di parlare come Berlusconi, che vede dappertutto «attacchi di concorrenti» e si chiede «dove sia andata a finire la deontologia professionale dell'intero apparato giornalistico». L'unico risultato pratico di questi processi alle intenzioni, condotti non si sa se per pigrizia mentale o per calcolo, è che sul problema Berlusconi non ci si pronuncia.
Purtroppo, è fatale che questa opera di banalizzazione e rimozione avvenga. Berlusconi controlla metà dell'audience televisiva, un terzo del mercato dei periodici, oltre un quarto di quello dei libri; è il massimo operatore pubblicitario; ha in mano il cinema italiano, dalla produzione alla distribuzione; ha teste di ponte nei quotidiani, per interposto fratello, e perfino nel teatro. Insomma, è il più grande datore di lavoro intellettuale della storia del nostro paese. Questo gli assicura, se non la solidarietà, almeno la benevola distrazione di tanta gente che fa opinione, per la quale egli non è un elemento del paesaggio, ma l'unico paesaggio possibile.
Così va il mondo. Ma proprio per questo è assurdo che una limpida battaglia contro lo strapotere della Fininvest, e ora contro il progetto politico del suo capo, venga derubricata a regolamento di chissà quali conti aziendali. Risparmiatemi questa forma sottile di intolleranza, amici che a volte trovate "L'Espresso" troppo aspro. Per favore, lasciatemi parlare male di Berlusconi.