Un enorme neonato in marmo bianco, quasi due metri per uno e mezzo, sta rannicchiato a terra da qualche giorno nel pavimento del cortile della Camera dei deputati. È acciambellato come un feto, inerte, fragile. L’ha scolpito l’artista Jago, ispirato dai senzatetto di New York, come simbolo di povertà, discriminazione, indifferenza: collocato qui, nel cuore del Palazzo, con tanti onori da parte del presidente Lorenzo Fontana, è più che altro una spaventosa e bianchissima rappresentazione dello stato del Parlamento. Giacente, indifeso, in agonia, mezzo morto.
Non a caso la scultura è arrivata pochi giorni dopo l’approvazione del decreto sicurezza, il numero novantotto su cento che il governo ha fatto passare in soli due anni e mezzo, il provvedimento nel frattempo massacrato dalla Cassazione – come ampiamente previsto da giuristi e commentatori – e a sua volta simbolo, oltretutto, del massacro della dignità dei lavori parlamentari di cui è stato oggetto (basti dire che la premier Giorgia Meloni si è risolta nel decreto perché il disegno di legge ordinario era troppo lento e incespicante).
A prenderla di petto bisognerebbe dire che il neonato marmoreo è un formidabile segno di una democrazia sfigurata, latitante, collassata, dissolta, attaccata dai tarli, come l’ha descritta lo storico e deputato del Pd Federico Fornaro nel suo “Una democrazia senza popolo” (Bollati Boringhieri), sta di fatto che ancora prima dell’apoteosi – con la polemica sulla settimana corta ipotizzata dal ministro dei rapporti col Parlamento Luca Ciriani – già a metà mese la Camera dei deputati è stata convocata per lavorare in tutto quattro ore, nella settimana tra il 16 e il 21 giugno. Con questo scintillante programma: interpellanze e interrogazioni, votazioni sul decreto Irpef, dibattito sull’istituzione della giornata della ristorazione, mozioni per trattenere i ricercatori in Italia (e qui la maggioranza ha approvato un testo di Italia viva, per puro errore). Totale: quattro ore. Il calcolo l’ha fatto in Aula Valentina D’Orso, deputata dei Cinque stelle, cercando di provocare un sussulto di «dignità» nei deputati, in un intervento che è a sua volta dimostrazione tangibile della notevole e forse insperata evoluzione parlamentarista di un Movimento che era entrato nei palazzi per aprirli come una scatoletta di tonno. Ma sono cose che capitano: del resto pure Matteo Renzi, oggi senatore, aveva tentato da premier di abolire il Senato.
Ogni legislatura ha il suo segno, il suo punto di novità: negli ultimi quindici anni c’è stata per esempio la fase dei tecnici, la fase grillina, la fase dei Dpcm. La tendenza a centralizzare l’attività legislativa, a spostare il peso sul potere esecutivo, non è di oggi, anche se peggiora sempre di più: il governo Meloni ha una media di 2,9 voti di fiducia al mese (96 fino a ora), un numero di decreti pari al 37 per cento delle 211 leggi approvate tra il settembre 2022 e oggi (di queste solo 85 sono ordinarie, dato Openpolis), ha stabilito un record rispetto agli ultimi quattro governi, ma non di tanto.
Quello che è davvero nuovo è che, fuori dalla decretite e dalla tendenza a duplicare i reati, c’è davvero poco altro. Non solo in termini di provvedimenti approvati: scarseggiano proprio i dibattiti parlamentari, le discussioni su provvedimenti che magari neanche arrivano in fondo all’iter ma almeno tengono viva l’attività. Meccanismi di cui la stessa premier Meloni si è nutrita, nei suoi sedici anni di parlamentare.
Oggi invece il livello è tale da far paradossalmente risaltare per vivacità parlamentare persino gli anni berlusconiani, ed è tutto dire: è vero che da premier Silvio Berlusconi sognava di far votare solo i capigruppo, ma in pratica persino delle leggi bavaglio o delle leggi ad personam si discuteva per settimane, tra aggettivi e commi, prima di vedere i provvedimenti magari affossati da qualche braccio di ferro interno alla maggioranza, o dal Quirinale o dalla Consulta. Oggi niente di tutto questo. Semmai, ecco, si rimanda, come si è fatto per premierato e separazione delle carriere. Non di rado i dibattiti vengono sottoposti a tagliola, gli emendamenti nemmeno discussi, ci si dedica ad altro. In mezzo ci sono stati fra l’altro gli anni dell’anticasta, i meccanismi populisti che hanno rafforzato l’allergia alla complessità, le leggi che hanno sventolato la bandiera della semplificazione. Ciliegina sulla torta, il taglio di un terzo dei parlamentari – voluto da M5S e votato nel corso di due governi da quasi tutti i gruppi parlamentari nella scorsa legislatura – che ha avuto fra l’altro l’effetto di complicare i lavori delle Camere: le commissioni ad esempio non possono più riunirsi contemporaneamente (i parlamentari ora ne hanno per lo meno due da seguire), devono procedere a scartamento ridotto, in modo più lento e farraginoso.
Eccola quindi la novità. Si legifera (o non si legifera) per lo più per mano del governo, al punto che persino la proposta per la Camera di non lavorare il venerdì è stata avanzata da un ministro. E il Parlamento viene schiacciato sempre più nella direzione di una funzione auditiva, quando non addirittura esornativa, o museale. I momenti di maggior fervore parlamentare sono spesso legati alla presenza della premier (le comunicazioni in vista di un consiglio europeo, il question time) o dei ministri di maggior peso. È scoraggiato in ogni modo l’approdo in Aula di discussioni che possano andare trasversalmente a spaccare la maggioranza: quelle discussioni si fanno fuori, vedasi il terzo mandato, oppure non si fanno proprio, vedasi il salario minimo.
Grandissimo spazio, in proporzione, viene dato a dibattiti inoffensivi. Finora, ad esempio, sono stati presentati ben 116 testi per istituire giornate commemorative – i più forsennati Fratelli d’Italia e Lega, seguiti da Noi moderati e Forza Italia – e, cosa ancora più insolita, molte di quelle proposte sono state addirittura discusse. Alcune sono diventate legge, come quella che istituisce la giornata degli abiti storici (Fallucchi, Fdi), delle periferie urbane (Battilocchio, Fi), o riconosce l’agricoltore come custode dell’ambiente (Bergesio, Lega). Approvate in un ramo del Parlamento, come la giornata della ristorazione (Squeri, Fi), del formatore (Marti, Lega), della cittadinanza digitale (Stefani, Lega), della meraviglia (Pirovano, Lega), della prevenzione veterinaria (Cantù, Lega). Almeno discusse in commissione: la giornata del patrimonio caseario, delle aree interne e dei piccoli comuni montani, della sartoria tradizionale italiana, del riciclo della carta, la giornata del panettone, del latino, della cultura motociclistica, del calendario gregoriano ideato da Luigi Lilio, degli antichi mestieri, della vita nascente, della scrittura a mano, dei figli d’Italia.
A fianco dei dibattiti inoffensivi, c’è quella che si può definire una tendenza museale. Un po’ come si va oggi al Colosseo pensando che una volta c’erano i combattimenti coi leoni, adesso si può arrivare in un luogo adibito all’attività politica e legislativa come il Senato a celebrare i suoi 75 anni con un concerto in Aula di Gianni Morandi, come accaduto l’8 maggio, con il presidente Ignazio La Russa che regala al cantante il campanello in quanto «icona della cultura musicale italiana» e buffet a seguire nella Sala Garibaldi. Oppure alla Camera si può assistere a quella che il presidente Fontana ha battezzato come «l’apertura della democrazia alla dimensione culturale» in molti modi: con la scultura di Jago ma anche con l’arrivo della preziosa borsa da lavoro appartenuta a Paolo Borsellino, evento che con tutti gli onori si è tenuto direttamente nel Transatlantico antistante all’Aula, tanto non c’erano lavori in corso, appunto.
Tra eventi e celebrazioni, c’è un grande attivismo nell’attribuzione di medaglie, in questo senso si segnala sopra a tutti il presidente della commissione Cultura della Camera Federico Mollicone: la più recente l’ha consegnata alla pro-loco di Roma Capitale, «per la riscoperta dell’antica tradizione popolare e artistica dell’infiorata». Sono poche le sedute d’Aula ma tanti gli eventi: solo a prendere tra gli ultimi, gli stati generali dell’energia, un convegno sull’osteopatia, la messa in onda di un documentario dedicato a Carlo Mazzone, l’illustrazione di un progetto sui gatti delle Vele di Scampia, tutta una vita parallela dell’istituzione mentre la politica agonizza.
Per non parlare delle conferenze stampa. La sala è super prenotata, peggio del Campidoglio per i matrimoni a maggio, guai a sforare anche solo di cinque minuti: libri sulle bonifiche, sui paesaggi musicali in Palestina, sulla vita di Andrea Carnevale (titolo: “Destino di un bomber”), festival come quello sul teatro antico di Formia, appelli alle start up, dati annuali su banche e su droga, piattaforme per prenotazioni di aerei, soluzioni per case green, riciclo dei pannelli fotovoltaici, concerti al Colosseo, eccetera. Uno ogni ora, con la fila che si forma fuori in attesa di poter entrare, come se poi questa parcellizzata corsa ai cinque minuti d’attenzione possa essere l’unica attività di Palazzo in grado di raccogliere qualche entusiasmo, qualche persona. E dire che, giusto la sera della vittoria elettorale del settembre 2022, oltre ai ringraziamenti di rito Giorgia Meloni aveva giurato dall’Hotel Parco dei Principi che il suo sforzo e la sua sfida sarebbe stata tornare a far credere le persone nelle istituzioni. Certo poi è entrata alla Camera per le consultazioni e all’ingresso ha trovato campeggiare le gigantografie di Borsellino e Falcone per la mostra dedicata agli eroi dell’Antimafia, che in quei giorni si teneva. Forse è stata lì, l’illuminazione.