Il sostegno di massa alle indagini contro la corruzione si incrina per la prima volta tra il 20 e il 23 luglio del 1993, con il suicidio a San Vittore di Gabriele Cagliari, ex presidente socialista dell’Eni (scarcerato dai magistrati di Mani Pulite, ma rimasto in cella per altre accuse), e poi di Raul Gardini, per anni al timone del gruppo Ferruzzi-Montedison, che si toglie la vita nella sua casa di Milano la notte prima degli arresti per lo scandalo Enimont. In quei giorni drammatici i pm di Tangentopoli hanno scoperto che il colosso della chimica ha versato somme enormi ai partiti, utilizzando masse di fondi neri occultati all'estero in decine di società offshore. Le prime ammissioni arrivano dall'amministratore delegato, Carlo Sama. Il 27 luglio, dopo l'arresto in Svizzera, il presidente e stratega finanziario del gruppo, Giuseppe Garofano, vuota il sacco in una storica confessione.
Nel carcere di Opera, dopo aver illustrato le ragioni della rottura con l'Eni e della crisi di Enimont, Garofano spiega perché Gardini decise di «piegarsi al ricatto del sistema politico» e confessa nei dettagli tutta la maxi-tangente Enimont: oltre 150 miliardi di lire (75 milioni di euro) versati tra il 1990 e le elezioni del 1992 ai cinque partiti di governo e a decine di parlamentari e capi-corrente. In cambio, la Montedison è uscita da Enimont incassando dall’Eni, cioè dallo Stato italiano, oltre 2800 miliardi di lire (pari a 1,4 miliardi di euro).
Di Pietro esce dal carcere sfinito. La stessa sera, i boss di Cosa nostra fanno esplodere tre autobombe, due a Roma e una a Milano, in via Palestro, dove il terrorismo mafioso uccide cinque innocenti.
Le confessioni di Sama e Garofano sono alla base delle condanne definitive di tutti i segretari e tesorieri dei partiti di governo e di decine di parlamentari e politici, poi decise in tutti i gradi dei giudizi per lo scandalo Enimont. Tra il 1993 e il 1994, mentre l’inchiesta Mani Pulite continua, vengono trasmesse in diretta televisiva le principali udienze del dibattimento di primo grado contro il solo Sergio Cusani, condannato per aver distribuito una grossa fetta della maxi-tangente, che è uno dei pochi a scontare la pena definitiva in carcere.