La redazione iniziale, i progetti, i primi successi. Vi riproponiamo l’articolo che il fondatore scrisse in occasione dei 50 anni dell’Espresso nel 2005. «Bisogna sapere in che modo nascono le cose per capirne le modalità, il Dna che poi ne governerà lo sviluppo e si trasmetterà di generazione in generazione»

Ancora le rivedo quelle quattro stanze al pianoterra di via Po 12 dove entrammo, Arrigo Benedetti, Antonio Gambino ed io, ai primi di settembre del 1955 per preparare il primo numero de "L'Espresso" che arrivò nelle edicole il 2 ottobre.

 

Per l'esattezza, oltre alle quattro stanze che davano sulla trafficatissima via, c'era uno stanzino che fu adibito a segreteria di redazione e dove si installò Lily Marx, un gabinetto provvisto di bidé e lavabo e un corridoio che finiva davanti ad una porta chiusa, al di là c'era la Sara, una società di assicurazioni automobilistiche che divideva con noi l'appartamento.

 

In compenso (e in contrasto visibile con la modestia di quei locali) la porta d'ingresso era incorniciata da due colonne bianche dopo le quali un'anticamera con finestra con un tavolo per il centralino e una panca per i due commessi.

 

Arrigo scelse la sua stanza d'angolo. Non scostò neppure le tendine ai vetri della finestra e dette un'occhiata distrattissima all'ambiente. Badò solo che la lampada sulla scrivania fosse dalla parte giusta per far luce sui fogli, che non mancassero i block-notes nel cassetto, le penne, le matite, le forbici, i rotoli di scotch, la gomma per cancellare, un righello, una squadra, un compasso. Insomma gli oggetti semplici da scuola elementare che gli erano necessari per impaginare. In un angolo della stanza c'era infatti un tavolo da disegno inclinato su un cavalletto. Nella parete dietro la scrivania due mensole per i libri. Nella parete di fronte un armadio a cassettiera.

 

Nell'altro angolo un attaccapanni. A lato della scrivania un grosso cesto che presto diventò celebre per la quantità di carta appallottolata che vi finiva dentro, articoli scartati, menabò, schizzi di pagine, appunti diventati inutili. Quel cesto, che seguì il primo direttore de "L'Espresso" nelle varie stanze dove successivamente peregrinò man mano che nuovi ambienti si aggiungevano a quelli iniziali, fu testimone muto di reprimende, insegnamenti, esortazioni, litigate, pianti e soprattutto carriere gloriose o spezzate sul nascere, costellate da pagine cestinate e da correzioni spesso gridate dalla voce del "Tonno", come Benedetti venne rapidamente battezzato dai suoi redattori.

Nella stanza accanto prendemmo posto Gambino in funzione di caporedattore ed io direttore amministrativo. Nelle due camere successive la redazione: Fabrizio Dentice, Enrico Rossetti, Sergio Saviane, Mario Agatoni, Franco Lefebvre e Carlo Gregoretti che, oltre a mansioni di inviato, aveva anche quella assai importante di grafico. Non so se dimentico qualche nome, ma non credo. Poche settimane dopo si aggiunsero Gianni Corbi e Mino Guerrini. Manlio Cancogni era l'inviato di spicco, ma non veniva in redazione se non per consegnare i suoi pezzi.

 

Poi guadagnammo un'altra stanza e assumemmo una steno-dattilografa. E questa fu la partenza di un'impresa che, a vederla oggi, è un gigante mediatico il cui valore patrimoniale si ricava dai listini di Borsa, che occupa migliaia di dipendenti e dà lavoro a migliaia di collaboratori, possiede "la Repubblica" (della quale cadrà nel prossimo gennaio il trentesimo anniversario), una dozzina di giornali locali, quattro radio, un sito Internet tra i più visitati, periodici e supplementi e naturalmente "L'Espresso", dal quale tutto questo cominciò.

 

Forse i lettori che ci seguono fin dal primo numero di cinquant'anni fa (ce ne sono, ve l'assicuro, a me capita di ricevere spesso loro lettere e telefonate e li considero come i Mille che partirono da Quarto per Marsala alla conquista di mezza Italia) non sanno che l'idea iniziale di Benedetti e mia era di fondare un quotidiano.

 

Avevamo cominciato a pensarci fin dal 1952 quando Arrigo dirigeva ancora "L'Europeo" che aveva fondato con l'editore Mazzocchi nel 1946.

 

"L'Europeo" era allora il settimanale più "chic" nel panorama dell'editoria settimanale. Con un formato delle stesse dimensioni d'un quotidiano, grandi foto, mondanità, cronaca, cultura, impegno politico. Quella era sempre stata la cifra di Benedetti, in parte ereditata dalla scuola grafica di Longanesi, ma applicata ad un'idea di liberalismo di sinistra che spesso trascolorava in un vero e proprio liberal-socialismo.

 

La stampa settimanale, in un paese ancora privo di televisione e di giornali popolari, con giornali quotidiani poveri di pagine e in libertà vigilata da proprietà industriali che non volevano grane con il governo e con i poteri forti, era l'unico settore veramente libero e moderno dell'editoria giornalistica. Si inventò una grafica, un linguaggio, una strategia editoriale. La prima linea era composta da tre campioni: "L'Europeo" occupava il settore di centrosinistra, il "Tempo" di Tofanelli il centro repubblicano, "Oggi" di Rusconi la destra monarchica.

 

Ma dopo sette anni di successi Benedetti aveva voglia di cambiare. Sognava un quotidiano. E ne discuteva con me.

 

Potrà sembrare strano che fossi proprio il confidente e il collaboratore dei suoi progetti. Ero di quattordici anni più giovane, lavoravo in una banca, avevo cominciato a collaborare con articoli di argomento economico al "Mondo" di Mario Pannunzio nel 1950, poi a "24 Ore" allora diretto (e fondato) da Arturo Colombi. E poi all'"Europeo". Ma non ero un giornalista, anche se quella era la mia passione.

 

Arrigo praticamente mi adottò e mi insegnò come si deve scrivere per un giornale di grande diffusione. Tanto più se ci si occupa di temi economici, astrusi ma interessanti per definizione.

 

Anch'io conobbi le sue sfuriate e il cestino (cestone) dell'"Europeo". Probabilmente avevo qualche talento perché di sfuriate ce ne furono tre o quattro. Dal secondo mese di collaborazione capii e il cestino, per quanto mi riguardava, uscì definitivamente di scena. Ovviamente non ho mai cessato di studiare perché la nostra è una professione dove gli esami non finiscono mai. Ma la mia gavetta fu quella e durò molto poco.

 

Quando Benedetti cominciò a sognare il suo quotidiano e a parlarne con me abitavamo a Milano in via Melzi d'Eril, una traversa all'inizio di Corso Sempione a duecento metri dal Parco. Lui e la sua famiglia al secondo piano d'una palazzina, io in due camere al terzo. Per puro caso. Ero arrivato a Milano due anni prima, cercavo un alloggio da affittare e l'avevo trovato lì. Dopo pochi mesi ero di fatto entrato a far parte della famiglia Benedetti.

 

I lettori mi perdoneranno se indugio un po' su questi ricordi, ma bisogna sapere in che modo nascono le cose per capirne le modalità, il Dna che poi ne governerà lo sviluppo e si trasmetterà di generazione in generazione fino a quando la spinta iniziale conterrà forza propulsiva e ragion d'essere nel mondo mutevole che ci circonda.

 

Dunque un quotidiano. Che ereditasse la grafica e il linguaggio del settimanale. La sua spregiudicatezza. Il gusto di accoppiare la leggerezza con la serietà, la futilità con l'impegno, la trasgressione con la responsabilità, lo snobismo del gusto con il rigore dei pensieri.

 

Non credo che abbiate bisogno di altre spiegazioni perché quel quotidiano voi l'avete visto, lo vedete ancora e continuerete, spero, a leggerlo per molto tempo. Aggiungo soltanto che, trasferitici tutti e due a Roma nel 1954, nella primavera del 1955 il progetto di quotidiano era pronto e il piano industriale anche. Andammo a Ivrea, Arrigo e io, per incontrare il solo industriale che ci desse fiducia: Adriano Olivetti. La sua risposta fu: «Il progetto mi piace, ma da solo non ce la faccio. Di altri soci possibili ne vedo uno solo, Enrico Mattei. Proponetelo anche a lui e vedremo se ci starà».

 

Trattammo per due mesi con Mattei che alla fine accettò. Tornammo felici a Ivrea, ma Adriano nel frattempo aveva cambiato opinione. Ci disse che per lui fare società con l'Eni era come preparare un pasticcio d'un cavallo e d'una allodola. «Se volete fare un quotidiano fatelo con Mattei, basta e avanza. Ma se scegliete me io posso finanziare soltanto un settimanale».

 

Ci pensammo su quarantott'ore e la conclusione fu che se avessimo scelto l'Eni avremmo fatto un pasticcio tra un cavallo e una mosca. Perciò decidemmo per Olivetti e nacque "L'Espresso". Poi, un anno e mezzo dopo, Olivetti decise di ritirarsi: aveva avviato il giornale e preferì lasciarlo a noi. Regalò gran parte delle azioni a Carlo Caracciolo, a Benedetti e a me il 5 per cento ciascuno.

 

Il nome della testata lo prendemmo da "L'Express", fondato a Parigi poco tempo prima da Jean-Jacques Servan Schreiber, che conoscevamo e diventò nostro amico. Lui faceva allora un giornale che aveva come riferimento Mendès France. I nostri riferimenti politici furono Ugo La Malfa e Pietro Nenni che già stava sganciando il Psi dal Partito comunista. Ma la nostra intesa politica e giornalistica era soprattutto con Mario Pannunzio, Ernesto Rossi e il gruppo del "Mondo".

 

Col passar dei mesi e degli anni "L'Espresso" crebbe, le vendite aumentarono, la redazione si allargò e così pure i collaboratori. Direi che i titolari delle rubriche culturali radunarono il meglio della cultura italiana di allora: Alberto Moravia il cinema, Sandro De Feo il teatro, Massimo Mila la musica, Bruno Zevi l'architettura, Geno Pampaloni e poi Paolo Milano la letteratura, Lionello Venturi e poi Giuliano Briganti le arti figurative. Inviati di grande spicco, collaboratori di prima scelta dalle capitali europee e dagli Usa. I direttori in questo mezzo secolo sono stati in ordine cronologico Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi, Livio Zanetti, Giovanni Valentini, Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi e ora Daniela Hamaui.

 

Abbiamo passato periodi felici e periodi agitati. Nei primi anni un paio di volte siamo stati sull'orlo del fallimento. Nel '76 è uscita "la Repubblica". E tutto il resto. La struttura editoriale è naturalmente cambiata, ma Carlo Caracciolo è stato in questi primi cinquant'anni il presidente del Gruppo, mantenendo la continuità della linea e lo standard della qualità. Da tempo la società è quotata in Borsa e l'azionista di controllo è la Cir di Carlo De Benedetti. Debbo dire che in questo lungo arco di tempo gli azionisti della società sono stati scelti dai fondatori molto più di quanto non sia avvenuto il contrario e questa è stata la vera forza e la garanzia d'indipendenza delle testate del Gruppo.

 

Mi capita spesso d'incontrare lettori, giovani, anziani e vecchi, che mi dicono di essersi formati sulle pagine dei nostri giornali. Nei primi tempi era una piccola minoranza. Ora sono milioni di persone. L'altro giorno è venuta a trovarmi una vecchia coppia (entrambi insegnanti in pensione), i figli quarantenni e tre nipoti tra i 18 e i 27 anni. Sono marchigiani. Uno dei figli studia per un master al Mit, un altro collabora col padre nell'azienda di famiglia (componentistica per auto). La giovane figlia insegna anche lei nelle scuole superiori.

 

Il padre-nonno di questa bella famiglia, che mi aveva scritto per fissare l'appuntamento, m'ha detto che era voluto venire con tutti i suoi per portare gli auguri di tre generazioni cresciute sulle pagine dell'"Espresso" e di "Repubblica". La mamma-nonna aveva con sé dei fiori di campo. Ci siamo abbracciati. Spero di andarli a trovare ad Ancona.

 

«Sarai stato contento», m'hanno detto le persone che mi vogliono bene e alle quali ho raccontato di quell'incontro. Ho risposto: «Molto contento. Mi sembra che sia stata per tutti noi una fantastica avventura. Cominciata in una stagione lontana. Molto lontana...».