Le domande che il grande giornalista si pone nel suo ultimo libro, 'Grazie no'. Di cui anticipiamo un brano

Oggi, in un tripudio di bandiere tricolori, fiumi di italiani percorrono le strade delle loro città millenarie gridando al mondo la loro gioia. Hanno fatto una grande scoperta, hanno scoperto di essere italiani, di essere connazionali di Cavour e di Garibaldi, di Silvio Pellico e di Giosuè Carducci. Paiono interdetti, stupiti e incerti se plaudire o disconoscere gli altri, i pochi per cui l'essere italiani, l'appartenenza alla nazione italiana, è stata la questione principale della loro vita.

Una domanda cui hanno tentato di rispondere, ma sempre in qualche modo elusa, nei giorni di tripudio italianista è: che cosa significhi essere italiani. Si è detto e ripetuto: siamo tutti italiani perché parliamo la stessa lingua, abbiamo gli stessi monumenti, gli archi, la stessa cultura. Forse qualcosa di più e di diverso, di meno nobile ma di più reale: l'aver respirato la stessa aria, guardato gli stessi paesaggi, usato le stesse inflessioni dialettali, gli stessi luoghi comuni, gli stessi segni identitari che più sono umili e modesti, più sono significativi. Come il modo di coltivare i boschi, che a qualsiasi italiano in viaggio al di sopra di Bolzano appare diverso e inimitabile, o il cogliere anche nelle terre senza mare delle luci marine, del buio che sa di mare. E constatare che in questa italianità concreta e presente, incombente, c'erano delle zone aride, morte, che solo ora, dopo centocinquant'anni, stiamo arrivando alle ragioni più vere e profonde dell'Unità nazionale.

Dicono che io sia un inguaribile cultore della breve e interessante stagione partigiana, l'unica nella nostra storia in cui gli italiani ebbero veramente la libertà di decidere della loro sorte, e mi pare di notare che anche in questi giorni di nazionalismo trionfante ci sia una certa ritrosia a rievocare la guerra partigiana, come un peccato di libertà eccessiva dal potere dei vescovi, del denaro, delle classi. Un periodo in cui fu veramente possibile superare i legami del censo, della religione, delle etnie per essere semplicemente ma totalmente uomini liberi. Sì, quella fu un'esperienza eccezionale per gli italiani, una loro bella storia, così incredibile ed eccezionale da imporci anche oggi una sorta di rispetto o di timore a ricordarla. (...)
Chi sono gli italiani? Esistono gli italiani come nazione diversa dalle altre, riconoscibile fra le altre per i suoi difetti e le sue virtù? A volte la conferma della loro esistenza è di un'evidenza lampante. Basta, come si è detto, passare il confine tra il Trentino e l'Alto Adige per capire che si è in mondi diversi, fra popoli diversi, per lingua, costumi, senso geometrico del paesaggio, disegno dei campi, dei boschi, dei campanili, delle case, delle stufe, dei prosciutti, dei Cristi in croce, dei tabernacoli, del pane, di tutto. E se non sai di preciso chi sono gli italiani come puoi rispondere sul loro futuro, predire le loro sorti sociali e politiche? Tu sei uno di quelli che credono nella vitalità, nel futuro, nella salvezza degli italiani. Ma perché ci credi? Per un forte senso di appartenenza, di solidarietà, di affinità? O per qualcosa di più generico e indefinibile come "lo stellone", la protezione divina accordata a questo popolo nel bene come nel male, nella buona come nella avversa fortuna?

Hai dato a questa rubrica di giornale il titolo "L'antitaliano", per dire l'italiano diverso da quello che il nazista Goebbels chiamava con disprezzo "un popolo di camerieri e di zingari", o Lamartine "un'espressione geografica", o Mussolini "un popolo che è inutile governare". Milioni di persone della stessa lingua, per cui "il sì suona", ma che messi assieme sono incapaci di diventare società, Stato. E poi nelle tue recenti memorie passano gli italiani opposti, i montanari, i contadini, gli umili che durante la guerra stavano con te partigiano, anche se sapevano che le loro case sarebbero state incendiate e loro uccisi o deportati. Chi sono gli italiani? Quelli che hai conosciuto e stimato per gli imperativi etici, i Bobbio, i Gobetti, i Foa, quelli che scrivevano le Lettere dei condannati a morte, e i montanari come il taglialegna Marella, che ti offriva il suo vino mentre la sua casa bruciava e diceva: "Un errore i nazisti lo fanno sempre, mi hanno bruciato la casa, mi hanno rubato le bestie, adesso non mi resta che combatterli fino alla fine".

Dicono, ed è vero, che gli italiani danno il meglio di sé nei giorni difficili. Danno, a essere più esatti, quello che, visto i loro usi e costumi abituali, non ti aspetti. Per cui, come per improvviso miracolo, lo stesso che era pronto a ucciderti, a venderti per un interesse banale in difesa della "roba", di una gallina, di un frutto, ora è pronto a perdere tutto, la vita compresa, contro l'occupante. E più erano italiani umili, poveri, abbandonati, più erano generosi, più si privavano del poco che avevano per aiutarti, durante i rastrellamenti ti ospitavano nonostante le minacce di fucilazione.

In questa nazione che chiamiamo italiana, in questo popolo che abita la penisola ci sono, specie nei giorni di pace e di abbondanza, differenze abissali, caricaturali tra gli italiani. I faccendieri amici dei politici al potere, i cortigiani dei ducetti di turno, gli amministratori della furbizia e dell'inganno che appaiono in televisione e sui giornali con il loro seguito di escort e di profittatrici, nelle loro ville comprate con i soldi dello Stato, fra i loro legulei pronti a tutto, tra i furbi nati per frodare, che potrebbero fare professioni oneste ma sono attratti irresistibilmente dalle truffe e dai lenocini, insomma la scoperta che il peccato originale e il demonio non sono un'invenzione dei preti, ma la realtà incancellabile del mondo. E se allora qualcuno ti chiede che ne sarà degli italiani, se li aspettano tempi felici o nuove sventure, non sai bene cosa rispondere, ti rivolgi anche tu allo stellone, che dovrebbe proteggerci. Ma perché poi?

Testo tratto dal capitolo "L'Italia senza speranza" (pagg. 107-110) dell'ultimo libro di Giorgio Bocca, a giorni in libreria: "Grazie no. Sette idee che non dobbiamo più accettare", Feltrinelli 2012