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Attualità
dicembre, 2012

Il mistero del sergente rapito

Si chiama Davide Cervia. Era un militare esperto di guerra hi-tech. Molto bravo. Ed è stato sequestrato 22 anni fa. Da allora è stato un susseguirsi di depistaggi e minacce. Fino a una strana esplosione

Un boato nell'aria. Un fragore improvviso nella campagna autunnale di Velletri, alle porte di Roma, e torna l'angoscia. «Mia madre», racconta Marisa Gentile, classe 1962, «era appena uscita dal locale-cucina che abbiamo in cortile accanto alla villetta». Potrebbe essere un giorno qualunque, il 16 ottobre 2012. Invece no. L'incubo si presenta sotto forma di esplosione che sbreccia la parete esterna dello stanzino e squassa una finestra sparando vetri ovunque. «Subito abbiamo pensato a un terremoto, tanto è stato potente il botto. Ma poi», dice la signora Marisa, «si è accesa nelle nostre teste la parola che ci insegue da 22 anni: minacce».

Naturalmente i carabinieri sono ancora all'opera per certificare che l'episodio abbia tutti i crismi dell'attentato, però a scoraggiare l'ipotesi della fuga di gas - oltre al dettaglio che l'interno del cucinotto è rimasto intatto - ci sono nome e cognome di chi dall'estate 1982 è il marito di Marisa: Davide Cervia. «Aveva 31 anni quando l'hanno sequestrato», ricorda lei, «era il 12 settembre 1990». E non è solo una sua convinzione, che sia stato un rapimento. Lo ha scritto nero su bianco la Procura generale presso la Corte d'appello di Roma il 3 novembre 1999, escludendo la «scomparsa volontaria». Una certezza tra le troppe incertezze di questo pasticciaccio: «Tanto grave e vergognoso, quanto più volte inquinato dalle autorità italiane per stroncare le ricerche dei familiari», sottolinea l'avvocato Licia D'Amico che segue il caso.
Lo sconcerto cresce alla svelta, quando Davide svanisce nel nulla. «In quel momento», spiega la moglie, «lavorava come tecnico elettronico presso la ditta Enertecnel Sud di Cecchina, nell'area industriale di Albano Laziale». Ma non è questo che conta. Importa piuttosto che Cervia si sia arruolato volontario in Marina nel 1978, e si sia congedato nell'84 con i gradi da sergente. «Sei anni durante i quali mio marito ha maturato una specializzazione "Ge" in guerra elettronica, ottenendo anche i brevetti Ecm (contromisure elettroniche con disturbo emissioni radio altrui), Esm (ricerca segnali di comunicazione radar) ed Eccm (disattivazione del disturbo nemico)».

Quanto basta perché la Nato, vista la delicatezza delle sue conoscenze militari, imponga il protocollo di sicurezza "Nos" con cui lo vincola al silenzio totale. Eppure questi dettagli non vengono scandagliati a dovere dalla Procura di Velletri. Lo stesso procuratore capo, in seguito, ammetterà la «sostanziale inerzia dovuta a carenza di organico». Il che diventa «un misto di amarezza, rabbia e paura» che travolge la moglie di Cervia. La quale, per rendere ancora meglio l'idea, ricostruisce l'odissea affrontata per dimostrare che il marito non era un tecnico generico, come sostenuto all'inizio dalla Marina italiana, ma un eccellente professionista, «potenziale oggetto d'interesse per nazioni straniere in cerca di esperti». Arriva al punto, la famiglia Cervia, di occupare per ore la stanza del vicecapo di gabinetto del ministro della Difesa, «pur di acquisire la verità sulle competenze di Davide». E il risultato suonerebbe quasi ridicolo, se non fosse drammatico: perché la Marina militare fornisce, nel tempo, ben cinque versioni del foglio matricolare di Cervia, «partendo da quello in cui mio marito risultava senza brevetti e specializzazioni, fino all'ultimo dove appare il suo vero curriculum».

Menzogne, depistaggi, accenni di verità difficili da decriptare: è questo il muro contro cui sbatte da due decenni la famiglia Cervia. Allora i figli del sottufficiale, Erika e Daniele, avevano 6 e 4 anni. Oggi sono adulti che lottano contro l'omertà da cui è avvolta la scomparsa del padre. «Per questo abbiamo scritto, nell'ottobre 2011, al presidente della Repubblica, rimarcando i punti chiave della vicenda: incluso il fatto che nostra madre è stata interrogata soltanto sei mesi dopo il rapimento di papà». Senza dimenticare che, «dopo aver avocato a sé le indagini della Procura di Velletri, la Procura generale presso la Corte d'appello di Roma ha archiviato nel 2000 il fascicolo confermando il rapimento, ma rassegnandosi all'impossibilità di individuare i colpevoli».

Per la cronaca, lo scorso luglio il Segretariato generale della presidenza ha risposto per conto di Giorgio Napolitano alla famiglia Cervia, ma Marisa Gentile definisce quel documento «vago e insufficiente». Niente di strano, ci tiene però a precisare: «Ogni fase del sequestro di Davide è stato marchiato dalla frustrazione». E da infinite anomalie, andrebbe aggiunto. Ci sono, per dire, due testimoni che nel 1990 assistono al sequestro: «Il primo, Mario Cavagnero, era un vicino di casa che si è sentito per tre volte chiamare con tono concitato da Davide mentre lo rapivano». Il secondo, invece, «è l'autista di un pullman che alla stessa ora (17,30 circa) ha incrociato due auto che uscivano con manovre sospette dal nostro viale». Conferme importanti, eppure a lungo sottovalutate dagli investigatori. Mentre prende quota, in parallelo, la versione di un terzo testimone: tal Giuseppe Carbone, presunto conoscente di Cervia, che lancia la pista dell'allontanamento volontario del tecnico (dovuto a problemi coniugali e al desiderio di lavorare all'estero), salvo poi ammettere davanti ai magistrati di non avere «mai conosciuto Davide Cervia». Anzi: «Tutte le circostanze e i nomi da me riferiti in ordine alla vicenda in questione, sono falsi ed esclusivo frutto della mia immaginazione».

Sembra impossibile, conoscere il destino dell'ex sottufficiale. E tutto sommato è logico che sia così. Tanti sono i fantasmi che si muovono dietro le quinte. Basti pensare a quello che scrive il Sismi in un documento riservato, dove considera l'ipotesi del «sequestro di persona operato da non meglio identificate organizzazioni straniere», specificando che «ricorrono i nomi di Libia, Iran, Iraq e Israele» e concludendo che non è da escludere «la complicità di organismi italiani». La stessa convinzione che maturano i parenti del sottufficiale, certi che il rapimento sia avvenuto apposta alla vigilia della prima guerra del Golfo, quando il nome dell'Italia ricorreva «nei traffici, leciti o meno leciti, di armamenti e esperti in grado di farli funzionare al meglio».

Il problema, commenta Marisa Gentile, «è che ogni qual volta spunta un indizio, si attiva un meccanismo opposto per ricreare il silenzio». Tipico esempio, il capitolo Air France. Il 6 gennaio 1991, racconta un dipendente della compagnia al giornalista Gianluca Cicinelli, avrebbe volato su un volo partito da Parigi (con destinazione mai appurata con esattezza: forse Il Cairo, forse Sana'a) un passeggero che di cognome faceva Cervia. E ad acquistare il biglietto, a quanto pare, sarebbe stato il ministero degli Affari pubblici francese. «Notizia clamorosa», dice la signora Marisa. Senonché, durante le verifiche, «il passeggero si è miracolosamente trasformato in una passeggera». E ancora, si arriva a sostenere che «non si trattasse di una mademoiselle, ma di un militare di origine corsa». Il quale resta a tutt'oggi un nome senza volto, «non comparendo nei registri di nessun esercito».

Come districarsi, nel traffico delle contraddizioni accumulate in 22 anni? A riguardo, i Cervia hanno le idee chiare: «Non ci faremo intimorire né dagli attentati, né dalle chiamate mute che continuiamo a ricevere». La strategia, piuttosto, sarà quella di sempre: «Pretendere sincera collaborazione dalle autorità italiane. E il primo passo, pesante, è la causa civile che i Cervia hanno presentato contro i ministeri della Difesa e della Giustizia. «Dal ministero della Difesa», recita il testo, «dipende l'arma dei carabinieri, i cui esponenti si sono resi colpevoli di una gestione inappropriata - se non sospetta - della prima e più delicata fase delle indagini». Inoltre i Cervia imputano alla Marina militare di avere «insistentemente precluso la conoscenza della reale competenza tecnica» dell'ex sottufficiale, mentre rimproverano al ministero della Giustizia «la carenza di personale e strutture presso la Procura e il tribunale di Velletri».

La prima udienza è fissata per questo 7 dicembre. Ma la signora Marisa non si fa illusioni: «Ho sperimentato sulla pelle mia e dei miei figli quanto sia tortuosa, la strada verso la verità. E ho l'impressione che, dopo questa causa, c'è chi si sforzerà per renderla ancor più faticosa».

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