«Sono stanco, stanchissimo». Nagib lo ripete in continuazione. Sul volto i segni di anni di fuga, gli occhi svelti di chi è sempre allerta. Fra una frase e l'altra si interrompe, come per guardarsi alle spalle, abitudine acquisita negli anni e dura da cancellare. Il suo pensiero è rapito da un passato presente e indecifrabile. Parla come chi sa che da un momento all'altro deve alzarsi e nascondersi.
Nagib vive a Parma e «fa la pubblicità alla Coop». Distribuisce volantini di offerte vantaggiose. Sogni, a cui lui crede ancora. Nagib è un ragazzo afghano. Senza documenti, irregolare, clandestino. Anche se clandestino non è. «Da quando sono arrivato in Italia ho fatto domanda di asilo, però ancora non mi hanno dato un appuntamento per andare in Commissione». Un'attesa lunga tre anni e forse chissà ancora quanti. Nel 2009 il suo avvocato ha presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ma per ora non hanno ricevuto alcuna risposta. «Cosa vuoi che faccia, devo avere pazienza» sospira, senza sconforto. «Speriamo che un giorno arriverà. Aspetto anche cinque anni, anche dieci. E quel giorno sarò contentissimo, perché non voglio più scappare».
La sua è la storia di tanti ragazzi in fuga. La storia di uno dei più fortunati. «Sono arrivato due volte in Italia da Patrasso e per due volte mi hanno mandato indietro. La terza volta ho pensato non riesco, non riesco ad arrivare con la nave e così ho deciso: vado a piedi». Nagib cammina da mesi, da anni. E' scappato dall'Afghanistan dieci anni fa, quando aveva appena quattordici anni. Da solo. «E' una storia lunga la mia, ma vivere nel mio Paese non è possibile, nemmeno gli animali possono vivere lì. Non c'è futuro». E' l'unico momento in cui il suo sguardo si intristisce di sofferenza e consapevolezza. Una lunga storia di diritti negati. Tre anni in Iran, poi la Turchia, due anni in Grecia e da lì i tentativi per arrivare in Italia.
La prima volta, dopo venti ore, la nave da Patrasso ha attraccato a Bari. « Ero nascosto dentro al camion che usciva dalla nave, ma la Polizia mi ha cercato. E mi ha trovato. Mi hanno detto devi scendere e mi hanno riportato subito sulla nave. Altre venti ore ed ero di nuovo a Patrasso». Non gli hanno chiesto da dove venisse e perché. Nemmeno il suo nome. L'hanno solo rimandato indietro. Come merce indesiderata. «I greci mi hanno messo in carcere, sono rimasto quasi una settimana e mi hanno detto: questa è la prima volta che sei qui, ma la seconda volta se ti troviamo ti mandiamo indietro. Indietro vuol dire che ti mandano in Afghanistan». Lo precisa Nagib, perché il senso di quell'indietro sembra che tanti non l'abbiano capito.
«I poliziotti greci mi hanno detto che dovevo uscire dal loro Paese. Esci come vuoi, ma esci, mi ripetevano sempre. E io ho detto va bene. Mi hanno lasciato libero e ho pensato tanto la seconda volta non mi vedi». E invece è successo ancora. «Mi sono reimbarcato da Patrasso e sono arrivato ad Ancona. Siamo entrati in un camion e ci siamo nascosti sotto alle arance. Quando siamo arrivati al porto non respiravamo. Sai ventidue ore sotto alle arance non respiri più. Avevamo la febbre e uno quasi moriva, allora ci hanno dato delle medicine. Ci hanno tenuto qualche ora al porto e poi sono venute tre persone. Ci hanno chiesto perché volevamo venire in Italia e gliel'abbiamo spiegato. In Grecia ci hanno detto che dobbiamo uscire dal loro Paese. Io ho detto che non volevo più scappare, che volevo chiedere l'asilo. Ma non mi hanno voluto. Hanno preso due ragazzi che avevano 14-15 anni, gli altri, come me che ne avevo 21, li hanno mandati indietro».
E così Nagib si ritrova di nuovo a Patrasso nelle mani di quei greci che non lo vogliono. «Avevo paura, perché mi avevano detto che se fosse capitato un'altra volta mi avrebbero mandato in Afghanistan, ma io ho detto un altro nome e mi sono salvato. Hanno creduto fosse la mia prima volta. Per fortuna perché a Patrasso non si sta bene». Non si sta bene, già. «Ti mettono in stanze piccole. In venticinque, trenta. Anche bambini. Ti buttano dentro e non guardano. Non ti danno da mangiare, non c'è il bagno, non c'è niente», poche parole per riassumere trattamenti inumani. E una settimana per essere di nuovo fuori, in cerca di una via d'uscita. «Sono stato a Patrasso per qualche mese, cercavo un lavoro, ma non riuscivo ad andare avanti. Allora sono andato in altre città, ma non ho trovato niente, così ho pensato che non potevo andare avanti e sono andato via a piedi». Mesi di cammino. In solitudine. «Prima la Macedonia, poi la Serbia e alla fine sono arrivato in Ungheria. Camminavo da un'ora ed è arrivata la Polizia. Mi hanno preso e portato in un campo, ma non proprio un campo, è un campo da cui non puoi uscire. Ti danno da mangiare poco e stai malissimo. Così il secondo giorno io sono scappato da quel carcere, sono andato a Budapest e poi in Austria e dall'Austria in Italia».
L'Italia, a differenza di molti altri afghani, per Nagib non è una terra di passaggio. «Sono arrivato due volte qui, alla terza volevo rimanere. Non volevo scappare più. Quando sono arrivato ho chiamato Bashir un mio amico, lui stava a Venezia, e gli ho chiesto aiuto. Mi ha detto che a Parma c'era una persona che aiutava gli afghani. Ed era vero». Quella persona oggi non c'è più. Il signor Carlo, morto pochi mesi fa, ha aiutato Nagib e tanti altri ragazzi. «Carlo mi ha ospitato per otto mesi nella sua casa. Poi sono andato in un dormitorio per tre mesi, perché davvero Carlo non mi poteva aiutare di più, ma mi ha trovato un altro progetto, un'altra associazione. Mi hanno trovato una casa, mi hanno mandato a scuola per imparare l'italiano e gioco anche in una squadra di calcio. Non siamo tutti afghani, ci sono due della Costa d'Avorio e tanti italiani». Stasera Nagib gioca la sua partita. Tira calci al pallone. Corre. Vive.
Il suo avvocato sta cercando di fargli ottenere il riconoscimento di un suo diritto, quell'istanza di asilo che il governo italiano continua a negargli, sostenendo che se ne debba occupare l'Ungheria, il primo paese in cui gli hanno preso le impronte. Sta aspettando da tre anni, nonostante il Tar del Lazio abbia già riconosciuto la revoca del provvedimento che gli imponeva di lasciare Parma e andare in Ungheria.
Nagib continua a lottare. Altri come Zaher Rezai sono morti sull'asfalto gelido di una statale. Schiacciati dalle ruote del tir a cui avevano affidato e stretto la vita. La rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti ha posto una lapide: “In ricordo di Zaher , ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”. Zaher aveva 12 anni. Sul suo taccuino sporco di sangue il suo ultimo pensiero: «non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi o Dio, che non lascerai che finisca la mia primavera».