
A Palazzo Chigi è stata presa in considerazione anche l’ipotesi di rinforzare gli stormi alleati con una squadriglia di Tornado italiani, ma l’eventualità è stata subito esclusa. Oggi non servono altri aerei, mentre la richiesta più pressante che viene dai comandi americani riguarda le truppe di terra. Uomini necessari per addestrare in tempi rapidissimi i battaglioni curdi e iracheni che fronteggiano casa per casa l’inarrestabile avanzata dell’Is. Maquesti fanti occidentali diventeranno di fatto anche un presidio sul territorio nel caso di un drammatico peggioramento della situazione.
Il primo contingente tricolore pianterà le tende in Kuwait con l’incarico di formare velocemente squadre selezionate di guerrieri curdi: i nostri parà gli insegneranno a raccogliere sul campo le informazioni per dirigere gli attacchi dal cielo, trasmettendo le coordinate gps degli obiettivi oppure inquadrando i bersagli mobili con i puntatori laser che li segnalano alle bombe “intelligenti”. Per questo compito delicatissimo sono stati scelti alcuni peshmerga che vantano già una lunga esperienza in prima linea.
Più complessa invece è la questione dell’esercito iracheno, che si è letteralmente dissolto davanti all’assalto fondamentalista: sono scappati tutti, mollando armi e bagagli, cannoni e tank, blindati e missili lasciati in eredità dagli americani. Adesso agli ordini di Baghdad non ci sono più grandi unità operative, ma solo un’accozzaglia di reparti abbastanza inaffidabili. Per questo italiani e spagnoli si faranno carico di inquadrare un’intera brigata irachena, cercando di renderla pronta alla battaglia in due mesi. L’accordo tra i due governi è stato svelato venerdì 10 ottobre a Madrid. Il ministro della Difesa Pedro Morenes ha annunciato che il suo paese manderà in Iraq 300 soldati, «che agiranno assieme agli italiani, escludendo combattimenti diretti». La composizione del contingente spagnolo però ha creato diverse perplessità. Solo 60 saranno gli istruttori, accompagnati da dieci specialisti nella gestione dell’intelligence e una task force di protezione forte di 69 parà. E gli altri 160 militari? «Sosterranno la sicurezza e i compiti addestrativi», ha detto il ministro Morenes, spiegando che il compito della coalizione in Iraq «non è soltanto quello di fermare l’avanzata dello Stato islamico ma anche di fornire al Paese una struttura statale e garantire la sicurezza dei cittadini». Insomma, dalle sue frasi emerge una missione di portata molto più ampia: la ricostruzione di una nazione, cercando di superare l’atteggiamento dittatoriale dell’ex premier sciita Al Maliki che ha gettato la comunità sunnita nelle braccia dell’Is. Con i commandos europei teoricamente pronti a tutto, anche a passare all’azione per «garantire la sicurezza dei cittadini».
Dal punto di vista militare, è facile intuire come la spedizione italo-spagnola costruirà un caposaldo strategico nella regione di Nassiriya dove la popolazione è in maggioranza sciita. La base sarà accanto all’aeroporto di Tallil, nelle strutture allestite dagli americani durante la lunga occupazione: quando nel 2011 venne ammainata la bandiera a strisce e stelle c’erano hangar e prefabbricati, mense e officine, persino un ufficio postale e tre fast food. Il complesso fortificato, che si estende per quasi trenta chilometri quadrati, potrebbe diventare un avamposto occidentale lungo l’autostrada che collega la capitale a Bassora e ai pozzi petroliferi che alimentano l’economia del Paese. Più difficile invece riutilizzare Camp Mittica, la caserma tricolore costruita nei tre anni della missione Antica Babilonia.
Ogni iniziativa italiana verrà sottoposta al Parlamento dal ministro Roberta Pinotti, che finora ha seguito una linea di trasparenza totale nelle operazioni estere. L’intero pacchetto studiato dal governo rientra nelle linee di intervento presentate alle Camere nello scorso agosto: si tratta di addestare forze locali e dare supporto agli stormi alleati, seppure con un dispiegamento di uomini e mezzi molto più consistente di quanto previsto due mesi fa.
Il numero dei militari italiani che affiancheranno gli spagnoli nella regione di Nassiriya non è stato ancora deciso, ma potrebbe andare da cento a duecento. A Roma i vertici delle forze armate devono fare i conti con uno scenario che diventa più complesso di settimana in settimana. Da una parte c’è il ritiro dall’Afghanistan, dove il governo Letta ha preso impegni con la Nato per mantenere un contingente di 850 soldati anche dopo il gennaio 2015: sarà il corpo più grande dopo quello americano, in un Paese sempre più lontano dagli interessi della nostra politica estera.
Dall’altra ci sono le emergenze del Mediterraneo, prioritarie nell’agenda renziana del semestre europeo. Dalla guerra civile senza confine in Libia alle incursioni jihadiste nelle alture del Golan, sulla frontiera tra Siria e Israele, che le Nazioni Unite vorrebbero affidare ai caschi blu stanziati in Libano sotto comando italiano: altri due fronti caldissimi della sfida globale contro l’integralismo armato. Al governo Renzi non dispiacerebbe ridurre la costosa missione in Afghanistan per mostrare la bandiera dove il nostro Paese può contare di più o dove le emergenze si stanno facendo drammatiche. Una partita che tocca anche alla diplomazia guidata da Federica Mogherini, nella duplice veste nazionale ed europea. Senza dimenticare i rischi che ogni escalation comporta, tra i militari che vanno verso zone di guerra e i pericoli di rappresaglia terroristica. Ma davanti all’Onu il premier è stato chiaro: «È in corso un genocidio, lo Stato islamico è una minaccia per l’intera comunità internazionale».