Dipingono i muri, i cancelli, i treni del metrò. Alcuni per creatività artistica. Ma altri solo 
per il gusto di sfidare i controlli, le telecamere, la polizia. E così il gioco a volte finisce male (Foto di Valerio Polici)

Se gli chiedi perché lo fa, la risposta è pronta: «Per l’adrenalina: se non c’è rischio non mi diverto». Bombolette, guanti, passamontagna, ma soprattutto velocità: il writer perfetto vive come in un videogioco. Si arrampica sui tetti, scavalca le inferriate, striscia sotto i vagoni, fa lo zig zag tra le torce e i cani poliziotto: una sfida ai vigilantes e alle forze dell’ordine per poter lasciare il proprio segno. La firma, in gergo la “tag”, che si deve ripetere in serie nei posti più irraggiungibili: quello più ambito è la metropolitana, perché la sorveglianza è alta e il graffitaro potrà sfoggiare il suo marchio come un trofeo.

A spiegarci i segreti del writing è “Bosi”, ancora un ragazzino ma già ricercato in diverse città: su di lui pendono più di un processo e dossier aperti con decine di accuse. L’azione più eclatante che ha compiuto è finita su tutti i giornali: insieme ad altri otto writer, tutti vestiti di nero e incappucciati, una sera dell’aprile 2013 ha bloccato un convoglio della metro di Milano. «Abbiamo tirato i freni di emergenza», racconta, «e gridato “attentato, attentato”.

Molti viaggiatori erano terrorizzati, altri hanno cominciato a insultarci. Noi abbiamo iniziato subito a dipingere i vagoni, dovevamo metterci massimo 5 minuti». L’autista è intervenuto e i ragazzi – i più grandi sui vent’anni, ma la metà minorenni – gli hanno spruzzato della vernice in faccia e colpito con una bomboletta. Per questo episodio, ripreso dagli stessi writer con una minicamera e caricato su Youtube, ci sono 40 indagati e la procura ha ordinato perquisizioni in tutta Italia. Le accuse sono pesanti: associazione a delinquere, resistenza e aggressione a pubblico ufficiale, violenza privata aggravata e imbrattamento, interruzione di servizio pubblico.
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Il writing, sempre più avversato da amministrazioni locali e forze di polizia, ha in realtà un’origine pacifica: è nato negli Usa, tra fine anni Sessanta e inizio Settanta, come espressione dei giovani della working class, perlopiù immigrati: neri, cubani, portoricani. Il nucleo di origine si individua tra i quartieri newyorkesi di Manhattan, Brooklin e Bronx: ragazzi singoli, o associati in gang o meglio “crew”, cominciano a trasferire le proprie scritte dai muri ai vagoni di treni e metropolitane, per veicolare il messaggio in tutta la città.

Si creano così figure e tag mitologiche: da Taki183 a Coco144, dei veri e propri “master” ammirati dai writer esordienti. Dichiarava Supercool223 nel 1971: «Ho scritto il mio nome dappertutto. Lo trovo in tutti i posti in cui vado. Qualche volta la domenica vado alla stazione della 86esima strada e ci passo tutta la giornata a guardare il mio nome che mi sfila davanti».

In Europa e in Italia il fenomeno si diffonde negli anni Ottanta, associato al dilagare della cultura hip hop e poi del rap. «Ma oggi i generi musicali sono i più vari: si va dal punk all’hardcore, e a Roma si ascoltano gruppi underground locali, dai “Colle der Fomento” a “Gente de borgata”, fino a Noyz Narcos. Tra i più piccoli va di moda Fedez», spiega Mathieu, ex writer che nella capitale ha aperto Graff Dream, negozio specializzato dove puoi trovare libri, felpe, magliette, gadget. E ovviamente le bombolette: in bella mostra sugli scaffali, protette da una rete. Perché i writer hanno un brutto vizio: spesso le vernici le rubano. Il furto classico è quello nelle ferramenta, ma capita anche che le gang più esperte rapinino i ragazzini - detti “toys” - non appena usciti da una rivendita. Oppure gli spray possono diventare il bottino tra crew rivali, dopo una rissa, o addirittura si impongono come “multa” per saldare uno sgarro: il più classico, l’aver coperto una scritta altrui.

A fare i writer si incomincia presto, in genere tra i 12 e i 15 anni: i più grandi hanno 45 anni, pochissime le donne (si calcola circa il 2 per cento). «Devi immaginarteli di notte in giro a disegnare», spiega Reis, ex graffitaro. «Poi una doccia e ti vesti per andare al lavoro». Oltre alla tag, esistono altri soggetti: il “throw up” (la firma ingigantita e riempita internamente di colore), il “pannello” (graffito su un treno), i “puppet” (pupazzi o figure), e possono farlo “top to bottom” (dall’alto in basso di un vagone), “whole car” (carrozza per intero) o “whole train” (tutto il convoglio). Dipende dal tempo a disposizione: «Alcune missioni devi studiartele per giorni, osservare le abitudini dei vigilanti e le possibili vie di fuga», dice Bosi, «ma poi magari per non rischiare dipingi al massimo 3 o 5 minuti».
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Il kit del writer è molto vario, calibrato sull’operazione che si vuole svolgere, se a basso o ad alto rischio. Di base ci sono ovviamente le bombolette - con i tappini a diverso getto, a seconda che la pittura debba essere più veloce o invece definita - poi i guanti, il cappuccio per celare la propria identità. I pantaloni devono essere comodi e le scarpe ben allacciate per non inciampare durante la fuga. In genere si agisce con un palo, che avverte gli altri dell’arrivo dei vigilanti: «Non ci portiamo dietro il telefono», spiega il romano Mueh, che spesso dipinge con la fidanzata Huyr. «Per diversi motivi: può essere intercettato attraverso le celle, e svelare la tua posizione. E poi può avere foto compromettenti, i dati dei tuoi compagni. Meglio comunicare urlando, o con un walkie talkie».

Le missioni più complesse si preparano giorni prima. «Apri porte e grate con un piede di porco o con le tronchesi», dice Reis. «Oppure ti procuri, rubandole o attraverso altri contatti, le chiavi per accedere ai depositi o ai tunnel della metro. Magari sostituisci il lucchetto, così non si accorgono della manomissione». Utili possono essere anche il nastro adesivo, delle buste o lo stesso spray, per neutralizzare sensori e videocamere. Per arrivare in alto si ricorre ai rulli degli imbianchini, e quando serve molta vernice si riempie un estintore. «Ultimamente mi porto dietro una bomboletta di acido fluoridrico, altamente tossico e che lascia tracce indelebili», aggiunge Bosi. «L’ho spruzzato diverse volte sulle volanti della polizia. Così, per sfregio».

L’asticella della sfida alle forze dell’ordine in molti gruppi giovanili è sempre più alta. Si sono diffuse nuove forme di azione: lo “scratching” (graffiare i vetri dei mezzi pubblici con pietre, cocci o martelli di emergenza); l’“etching” (corrodere con acido fluoridrico, appunto), la pittura a catrame (sparare bitumi). Il “backjump” è un intervento flash, fatto durante la breve fermata di un treno: o se lo blocchi in corsa, attivando i freni di sicurezza, si parla di “emergency brake”.
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Così per alcuni. Per altri invece il writing non è nulla più che una passione, da svolgere su canali del tutto legali. E molti sindaci, per contrastare l’area più estrema del fenomeno, hanno allestito le “hall of fame”, aree della città dove si può scrivere tranquillamente sui muri, valorizzando il lato artistico e decorativo del writing. Diversi writer sono diventati esponenti della street art: il più noto è l’inglese Banksy. Ma i graffitari più spericolati snobbano questi percorsi, ritenendoli noiosi: «Smetterò solo se mi colgono in flagrante», dice Bosi. «Perché avrò perso la sfida con me stesso, se sono stati più veloci di me».

Il writer rischia multe fino a 10 mila euro e il carcere fino a un anno, salvo reati più gravi. Dal 2006 è attiva a Milano l’Associazione nazionale Antigraffiti: in collaborazione con la procura e la polizia locale, ha messo in piedi una banca dati, con un elenco delle tag presenti sul territorio e le statistiche. «Il fenomeno ha preso una deriva di violenza e vandalismo, scrivono perfino sui monumenti», dice la segretaria Fabiola Minoletti. «Per molti imbrattare è compulsivo, una sorta di droga. Dicono: “Ho la scimmia, devo andare a dipingere”. E parecchi sono in terapia, come le vittime del gioco. Senza contare i danni per il pubblico: ogni anno ripulire la metro milanese costa sei milioni di euro».