Non si possono chiamare truffe, ma di sicuro sono modalità commerciali opache ed insidiose che il diffondersi degli smartphone rende sempre più frequenti. E non si tratta di piccoli raggiri ma di un vero business su scala industriale. L’inganno è mimetizzato tra le decine di spazi pubblicitari, banner e sms che invitano gli utenti a partecipare a concorsi, abbonarsi a suonerie o a news di gossip. Per scelta o per errore, può accadere di cliccarci sopra. E dopo un po’ ricevere un messaggino che informa: “Il servizio è attivo”, scoprendo così di essere stati iscritti, ad esempio, a un portale di giochi on line, dal costo di cinque euro a settimana. Soldi che l’operatore telefonico sottrae direttamente dalla scheda del cellulare, senza mai avere chiesto un’autorizzazione specifica.
«La sua sim è come una carta di credito: quando la striscia i soldi partono e basta», replicano dal call center. I casi del genere si stanno moltiplicando. Ci sono state quasi mille contestazioni formali presentate alle authority del settore. Le associazioni dei consumatori sono sommerse di segnalazioni: «Gran parte degli utenti ci contatta perché si vede addebitare servizi non richiesti, di cui ignora l’esistenza», racconta Pietro Giordano, presidente Adiconsum: «Si tratta delle famigerate pratiche commerciali scorrette, di cui l’Antitrust si è già occupata diverse volte negli ultimi anni».
Il problema, secondo Giordano, sta nell’attribuire con precisione la responsabilità dell’attivazione di questi servizi. Se da un lato l’utente ha concesso i propri dati solo all’operatore telefonico, dall’altro i fornitori dei contenuti - i cosiddetti service provider, che creano giochi e chat o forniscono notizie tramite sms - fanno spesso capo a società esterne, con cui Tim, Vodafone, Wind e H3g stipulano dei contratti. Questi contratti prevedono che l’operatore metta a disposizione la rete telefonica e la possibilità di addebitare il servizio direttamente sul conto del cliente. In cambio, il service provider versa all’operatore una certa percentuale sui ricavi ottenuti dal servizio. Il tutto nel rispetto del Codice di condotta per i servizi premium, detto anche Casp, una sorta di autoregolamentazione che le compagnie telefoniche e i maggiori service provider hanno stipulato per garantire trasparenza. Ciononostante, i casi accertati di pratiche commerciali scorrete sono numerosi. Nel settembre 2009 l’Antitrust si è occupata dei servizi offerti da Zeng Srl - suonerie, giochi e news - che sanzionò con una multa di 55mila euro. La parte più interessante del provvedimento, però, riguarda gli operatori telefonici: l’authority, infatti, li ritenne direttamente responsabili della pratica scorretta, perché le modalità di attivazione e pagamento dei servizi di Zeng erano non solo note, ma spesso concordate con i colossi della telefonia. Alla fine, le multe per loro furono lievi: dai 75mila euro pagati da H3g ai 155mila di Telecom. Tra il 2007 e il 2013, ognuna delle grandi compagnie è stata sanzionata almeno quindici volte dall’Antitrust: globalmente le multe comminate ammontano a 11 milioni di euro. Probabilmente il deterrente è poco efficace, rispetto a un mercato che gli stessi operatori valutano in «centinaia di milioni di euro».
L’avvocato Alessandro Calò sostiene che il coinvolgimento delle compagnie sia evidente. Un suo cliente si era visto sottrarre dal conto telefonico 300 euro in pochi mesi, per servizi mai richiesti; dopo aver diffidato la compagnia telefonica, in sede di conciliazione presso il Corecom (Comitato regionale per le comunicazioni) ha ottenuto la restituzione dei 300 euro e un indennizzo di 500. Tutto a carico dell’operatore telefonico. «Sarebbe interessante citare in giudizio gli operatori telefonici, per ottenere una sentenza che definisca le loro responsabilità», sottolinea Calò. Ma le compagnie scaricano la responsabilità sulle società esterne. Mentre l’Antitrust ha dovuto trasferire tutte le denunce ricevute dal primo marzo scorso all’Agcom (il Garante delle comunicazioni), per un conflitto di competenza. Così ogni utente continua a correre il rischio di ritrovarsi abbonato e pagare “a sua insaputa”.