Lo scontro non è generazionale. Non è una questione anagrafica, religiosa, scientifica. Non è nemmeno un problema politico: non ci sono posizioni di destra o di sinistra, quanto spaccature all'interno agli stessi partiti. È solamente una domanda. A cui a breve il Parlamento sarà costretto a rispondere.
La domanda è quella che riguarda i diritti dei figli e quelli delle loro madri naturali. Da una parte ci sono bambini cresciuti in famiglie adottive che, diventati adulti, vogliono scoprire il volto, il mestiere, i perché di chi li ha messi al mondo. Dall'altra ci sono mamme che avevano partorito affidandosi agli ospedali con la garanzia dell'anonimato, la certezza di finire nell'oblio, e temono ora la prospettiva del toc toc di un tribunale per scegliere se reincontrare quei loro figli oppure no. Quante sono? Fra 400 e 500 ogni anno.
La questione si pone ora perché il 18 novembre la Corte Costituzionale ha stabilito che la legge sull'adozione non va. È ingiusta. Perché non permette ai figli di risalire all'identità della madre biologica qualora lei non li abbia riconosciuti, questo nonostante: «la conoscenza delle proprie origini rappresenti un presupposto indefettibile per l’identità personale dell’adottato», «un diritto fondamentale». Oggi infatti la norma permette a chi ha più di 25 anni di chiedere a un tribunale l'identità della mamma naturale, ma non se questa, al momento del parto, ha chiesto di scomparire. Una tutela che non c'è in molti altri paesi. In Germania e in Inghilterra, ad esempio, il riconoscimento alla nascita, per le madri, è obbligatorio. Proprio per non mettere i figli di fronte a un muro - da parte delle istituzioni - nella loro difficile ricerca di radici o di un rapporto con chi ha dato loro la vita.
«Il diritto a conoscere le proprie origini contribuisce in maniera determinante a delineare la personalità di un essere umano», scrivono i giudici costituzionali: «Negare a priori l’autorizzazione all’accesso alle notizie sulle proprie radici, in ragione del fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato, compromette il diritto all’identità personale».
I magistrati hanno quindi delegato il Parlamento a riformare la legge. Il prima possibile. E la discussione è iniziata alla Commissione Giustizia della Camera. Non senza scosse: sia all'interno delle associazioni che nel Partito Democratico le posizioni sono radicalmente opposte. Da una parte, chi vuole proteggere innanzitutto le quasi 90mila donne che dal 1950 ad oggi hanno affidato i loro bambini allo Stato confidando nell'oblio. Dall'altra i figli alla ricerca delle proprie origini genetiche, del colore dei capelli, dei modi, delle motivazioni dell'abbandono da parte di chi li ha generati.
«La sola ipotesi di poter essere rintracciate e contattate per quella scelta già operata, spesso non comunicata nell'ambito della famiglia», sostiene Marisa Persiani, giudice onorario al Tribunale per i minorenni di Roma: «Genera angoscia a molte donne. Di fatto si tratterebbe di una violenza, di un'ingerenza nella loro vita privata; una tale evenienza darebbe corpo alla percezione della presenza di una psico-polizia, un giudizio di condanna sulla scelta operata».
A difendere questa tesi sono soprattutto movimenti d'ispirazione cattolica, che vedono nell'anonimato una forma di tutela capace di impedire il ricorso all'aborto, ma non solo. Ci sono anche associazioni per le quali la segretezza al parto indica un diritto della donna a scegliere, che non può essere revocato o messo in dubbio dallo Stato. E a tutelare questo spirito si sono impegnate anche alcune parlamentari del Pd, fra queste Micaela Campana e Anna Rossomando.
Di parere opposto sono invece le migliaia di figli che hanno sperimentato il dolore dell'impossibilità di conoscere chi ha dato loro la vita, se non dopo cento anni dalla nascita o usando mezzi "non istituzionali": forum, ricerche tra testimoni e presenti, richieste ai responsabili degli atti. In questi anni in tanti hanno raccontato le loro storie, si sono confrontati su siti web e pagine facebook come quella dell'associazione Astro Nascente, fino ad arrivare al David di Donatello con la rappresentazione al cinema della vita di Philomena spesa nel tentativo di scoprire l'identità dei genitori.
La decisione della Corte, d'altronde, arriva dopo altri colpi già assestati all'attuale ordinamento italiano. Nel 2012 la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo impose allo Stato un risarcimento di 5mila euro a favore di una donna di Catanzaro che non aveva potuto conoscere l'identità della madre. «L’Italia non ha cercato di stabilire un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa», scrissero i giudici di Bruxelles: «oltrepassando il margine di discrezionalità che le era stato accordato». Insomma: la nostra legge tutelerebbe troppo l'anonimato delle madri e per nulla la legittima volontà dei figli di conoscere le loro radici.
In questo senso (opposto a quello delle compagne di partito) si muove la proposta di legge che ha come prima firmataria la deputata Pd Michela Marzano, che stabilisce come: «Previa richiesta dell'adottato che abbia compiuto i venticinque anni di età, il tribunale per i minorenni, valutato il caso, è tenuto a informare la madre e il padre naturali e a verificare la perdurante attualità della scelta della madre di non voler essere nominata».
Due posizioni difficilmente mediabili. Entrambe sostenute da migliaia di persone. Quale parte prenderà il Parlamento?