Il ministro della Difesa ricorda come lo scoutismo sia anche “scuola di formazione politica”. Governo Renzi docet. «È un formazione che segna e tra ex ci capiamo al volo anche a Palazzo Chigi. Ma non siamo come Comunione e Liberazione...»

Lo scoutismo? Una scuola di formazione alla politica. Non ha dubbi Roberta Pinotti, prima ministra della Difesa scout, nel governo a più alto tasso di scoutismo della storia della repubblica. Coccinella precoce - è arrivata all’Agesci a cinque anni e mezzo, gruppo Genova 53 di Sampierdarena00 -, ha percorso scalino dopo scalino tutta la carriera in scarponcini, fino ad arrivare, a 19 anni, a indossare il fazzolettone del capo dentro l’organizzazione degli scout cattolici italiani, che si ritrova nel grande raduno di San Rossore (vedi box). Dall’organizzazione simil-militare di Baden Powell al vertice dei militari veri, dai pacifisti delle marce Perugia-Assisi ai caccia F35, dalle notti sotto le stelle a quelle in consiglio dei ministri, il passo è breve. Brevissimo, nel racconto dell’ascesa della capo scout Pinotti.

“È una scuola di vita”, si dicono molti genitori al momento di spedire i figli, a cellulari spenti, a scarpinare nei boschi per giorni e giorni. Ma adesso che lo scoutismo “siede” al vertice di governo e Difesa, ci si chiede se non sia anche una scuola di politica.
«Certamente lo è, per me lo è stata. Non ho fatto scuole di partito, prima dei 29 anni non ho mai partecipato a organizzazioni politiche. La mia formazione politica è avvenuta tutta negli scout. Nel nostro caso specifico, eravamo in un humus di sinistra, tutti figli di operai in un quartiere rosso. Ma più in generale, lo scoutismo è così: per fare bene l’educatore non basta fare un bell’urlo alla fine delle gite di squadriglia, devi occuparti di tutto il contesto. Gli scout italiani hanno preso posizione sul referendum sull’acqua, sono stati a Genova nel 2001, hanno scelto la linea “educare e non punire” sulle droghe. A volte a livello locale, a volte nazionale. Si discute di tutto. Nel mio caso, quando c’è stata la svolta di Occhetto nel Pci, ne abbiamo parlato a lungo, con altri capi scout; ci è sembrato utile intervenire, entrare per partecipare a questo cambiamento, e ci siamo iscritti in sei o sette».

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Un gruppetto di scout “entristi”. È rimasta in rapporti con loro?
«Beh, uno l’ho sposato… Con gli altri meno, da quando faccio vita romana. Ma al di là della mia vicenda specifica, quel che ti rimane della formazione scout è il modo di affrontare i problemi. Quando si deve partire con un progetto educativo, si fa un’analisi d’ambiente, si studiano le esigenze e i bisogni, si fissano gli obiettivi e si valutano le risorse. Io mi accorgo di applicare lo stesso metodo per le decisioni politiche. E poi, sono esperienze forti che ti restano per tutta la vita. L’ostinazione di camminare per ore anche sotto la pioggia, la gioia di vincere una gara di cucina, i pensieri di una notte sotto le stelle, prepararsi lo zaino con il cibo per una settimana: c’è il divertimento, ma anche una forte spinta all’autonomia. E si impara a gestire le proprie paure, per esempio nell’hike, che è quando passi una notte da solo nel bosco».

C’è stata una decisione difficile, o sbagliata, che ha preso ai tempi delle divise scout?
«Sì, quella volta che mi sono persa. Ero già caporeparto. Avevamo organizzato una salita su un monte su due percorsi: le coccinelle da una parte, senza viveri, i più grandi dall’altra. Una prova di crescita, e di fiducia nel fatto che gli altri arriveranno e ti porteranno da mangiare. Senonché, c’era nuvolo, ma si decise di partire lo stesso. A un certo punto il tempo è peggiorato, ero preoccupata per le bambine che erano da sole e sono andata a cercarle, ma mi sono persa, ho vagato per tutta la notte. Ciascuno dei due gruppi pensava che io fossi con l’altro, dunque non si preoccupavano… Insomma, è finita che sono arrivata tutta sporca e graffiata all’alba in un’osteria di cacciatori, mentre le coccinelle se l’erano cavata bene perché avevano comunque qualcosa negli zaini. Tipico caso di una decisione sbagliata perché presa d’impeto: per la fretta, non avevo portato con me lo zaino, errore grave!».

Quella degli scout è un’organizzazione molto rigida con le sue gerarchie. Le ha insegnato anche a fare il capo? È una scuola di leadership?
«Lo è, nel senso che ti abitui alla relazione con le persone e impari come gestire un gruppo. Peraltro, negli scout c’è sempre stata la regola della diarchia: ogni gruppo ha un responsabile maschio e una femmina. Perfetta parità, come nel governo Renzi. Noi ci preparavamo con cura alle discussioni, studiando tantissimo. Tutto ciò mi è servito quando mi sono trovata a fare la presidente di commissione».

I parlamentari non sarebbero contenti a sentirsi paragonati a un branco di lupetti...
«Come capo scout, sei un educatore: i ragazzi ti guardano e tu devi tirare fuori il meglio da loro. Nel caso dei deputati, è diverso, non sei un modello, non eserciti la leadership come punto di riferimento, ma allo stesso modo devi capire le dinamiche del gruppo, le caratteristiche di ognuno, i tempi e i modi degli interventi».

Anche Renzi è stato scout, con un percorso forse più rapido ma simile al suo. Emerge una lobby col fazzoletto, gli scout sono la nuova Comunione e liberazione?
«Certamente ci intendiamo di più, nelle riunioni ci capiamo al volo. La formazione è quella, un’esperienza come quella scout ti segna in un modo profondo. Ma Cl è un’altra cosa: ha deciso di farsi movimento anche politico, fa meeting politici, sostiene suoi candidati. Gli scout no. L’Agesci può prendere posizioni su temi, ma non ha mai detto né dirà da che parte dello schieramento stare, né sostiene suoi candidati».

Quest’anno l’Agesci ha deciso di non partecipare alla marcia per la pace Perugia-Assisi…
«Non lo sapevo. Io ho partecipato alla Perugia-Assisi, ho marciato contro la guerra in Iraq e lo rifarei, perché la consideravo sbagliata».

Gli scout sono nati per invenzione di un militare e hanno un’organizzazione da esercito, però è indubbio che lo scoutismo sia pervaso da valori pacifisti. Come ha vissuto, il suo mondo di provenienza, il fatto che lei abbia fatto carriera proprio alla Difesa? Ha avuto critiche, richiami, pressioni?
«No, non ho avuto richiami specifici. Ma mi sono posta il problema io stessa, quando ho cominciato a occuparmi di Difesa, in parlamento. Mi chiedevo: chi me lo fa fare, occuparmi proprio di armi? Meglio farmi mettere agli affari sociali, no? Insomma, ho avuto la tentazione di non affrontare la cosa. È stato illuminante per me un incontro con una grande donna, Michelle Bachelet, attuale presidente del Cile, allora ministra della Difesa. Le espressi i miei dubbi, le chiesi: “Non si sente in difficoltà, a chiedere fondi per gli armamenti?”. E lei mi rispose: “No, perché la Difesa è uno dei cardini dello Stato”. Ha ragione. Poi ho conosciuto il mondo dei militari italiani, ho visitato le missioni di pace in Libano e Afghanistan. Non trovo in questo alcuna contraddizione con quello che io penso si debba fare nel mondo. Pensiamo soprattutto al Libano: non è forse un posto in cui le armi della missione internazionale servono?».

Ci sono armi e armi. Sugli F35 non avete preso una decisione netta: perché? Anche i cacciabombardieri servono, come recita la massima di Baden Powell che lei cita sul suo profilo twitter, a “lasciare il mondo meglio di come l’abbiamo trovato”?
«Si è deciso di rallentare, prenderemo delle decisioni alla luce del Libro Bianco e in sintonia con il parlamento. Il programma è partito nel ’98, non è sensato mandare tutto all’aria, ma dobbiamo ragionare tutti insieme su quel che serve per il nostro paese di qui a quarant’anni: deve esistere o no un’aeronautica? Dobbiamo avere o no sistemi di attacco al suolo? Adesso abbiamo gli Amx, in Afghanistan abbiamo distrutto due depositi di esplosivo che altrimenti avrebbero potuto distruggere vite umane. Lo so che sarebbe stato popolare cancellare tutto di colpo, ma sono decisioni complesse, sul futuro del modello di difesa, che dobbiamo prendere con responsabilità. Per ora, abbiamo congelato. Ci sono sei F35 in produzione, con aziende e operai che lavorano».

Diritti gay: quanto si è aperto il mondo scout, e quando saranno accettati nell’esercito italiano?
«Già ai miei tempi, venticinque anni fa, avevamo ragazzi e ragazze omosessuali nei gruppi, magari all’epoca lo manifestavano con disagio, il nostro compito di capi era quello di evitare discriminazioni, isolamenti, dinamiche sbagliate di gruppo. Per l’esercito, già oggi sulla carta non c’è alcuna limitazione; c’era una vecchia norma che poteva portare a valutare come “problemi psichici” ostativi all’ingresso nell’esercito anche gli orientamenti di genere, ma è stata cancellata. Questo nelle regole scritte; nel vissuto è diverso, non vediamo pesanti discriminazioni ma di certo sottili diffidenze, la paura di non far carriera… Certo è un tema su cui lavorare, perché non c’è dubbio: un po’ di cultura machista nell’esercito c’è».