Le vicende dell'Espresso e di Repubblica viste dal nostro editorialista. Che racconta l'avventura del nostro giornale vista dalla Francia, e i suoi grandi protagonisti. Da Eugenio Scalfari a Carlo Caracciolo
Uomini di questa tempra non ne esistono più. Un giorno tornerà a nascerne uno. È indispensabile che rinasca, ma oggi no, non ce n’è, la stampa non ha proprietari così grandi come i due fondatori di questo settimanale e, in seguito, de “la Repubblica”.
Avevo conosciuto Eugenio a Mosca. All’epoca sono l’ultimo dei corrispondenti di “Le Monde” dall’Unione Sovietica; sono l’ultimo ma ancora non lo so. Poiché Eugenio legge i giornali francesi, mi legge ed ecco... vodka in mano, mi dice: sto per pubblicare un nuovo quotidiano in Francia, Jean Daniel sarà il proprietario e tu sarai il direttore.
Come dare del tu a Eugenio Scalfari? Come opporgli un rifiuto? Non so cosa sia più difficile ma...Tu... Lei... Tu... Riesco in ogni caso a rispondergli che ha assolutamente ragione, che a Parigi c’è evidentemente posto, al mattino, per un nuovo giornale di centrosinistra, meno austero di “Le Monde” e con un pubblico più largo di “Libération”, ma sto coprendo le notizie dell’agonia del Comunismo e niente, neppure un simile progetto, mi farà lasciare Mosca.
Eugenio non ha insistito. Un principe non insiste ma, tre anni dopo, mi telefona da Roma: “Domani sono a Parigi. Ci vediamo alle 17?”. Dopo essermi dimesso da “Le Monde” per le troppe divergenze di opinione riguardo la perestroika, sono diventato direttore de “l’Expansion”, bimensile economico di Jean-Louis Servan-Schreiber. Attorno alla sua rivista, Jean-Louis voleva fondare un impero della stampa nei paesi usciti dal comunismo. La sua energia, la sua visione, la sua fiducia erano contagiose, ma... come dire...? Non mi sentivo a mio agio. Sono un uomo da quotidiano. L’economia non è la mia passione e, vodka in mano, nel bar di quel grande albergo parigino, Eugenio mi spiega che per il momento ha coinvolto nel suo progetto “El Pais” e “The Independent”, e che il treno sta per mettersi in moto. “Prendi tu i comandi?”, mi chiede. E io li prendo, con il cuore che batte forte, totalmente ammaliato da quell’uomo.
A 60 anni passati, Eugenio è già un’icona in Italia. Autorità, prestigio, influenza, successo intellettuale e finanziario: ha realizzato tutto ciò che si può desiderare, ma un secolo si sta chiudfendo con l’implosione sovietica, l’Unione europea sta per espandersi, c’è da costruire un nuovo soggetto politico, si deve organizzare un’opinione paneuropea al di là delle frontiere di un tempo. E per lui non ci sono dubbi: farlo spetta alla stampa.
[[ge:rep-locali:espresso:285164252]]Con “El Pais” ha appena assunto il controllo dell’ “Independent” e adesso a questa costellazione italiana, spagnola e britannica deve aggiungere la Francia, creare un giornale a Parigi, nel capitale del quale far confluire, un giorno, una testata tedesca per dare vita su scala europea a quel “giornale-partito” che ha già creato in Italia.
Nel gran vociare di quel bar, è la prima volta che sento pronunciare la parola “giornale-partito” che aveva inaugurato lanciando “Repubblica”: non il giornale di un partito, ma un giornale che è di per sé un partito, che combatte le battaglie portando avanti le sue idee.
Su questa parola si ferma. In silenzio, il suo sguardo mi indaga: ho capito bene? Sì, certo, ovvio, ricevo forte e chiaro questa parola formata da due parole, perché la perestroika non è stata l’unico motivo della mia rottura con “Le Monde”, il giornale che era stato la mia bibbia e la mia università, che mi aveva plasmato e insegnato tutto, prima che ne diventassi corrispondente per dodici anni dalla Polonia di Solidarnosc all’Urss di Gorbaciov passando per l’America di Reagan.
Quel giornale, al quale appartenevo come si appartiene a un ordine, mi era diventato estraneo nel momento in cui aveva respinto il mio suggerimento di entrare nel capitale azionario della “Gazeta”, il quotidiano nato da Solidarnosc, e in tal modo aprire una nuova pagina della sua storia identificandosi nella realizzazione dell’unità europea.
Eugenio era diretto verso quell’orizzonte che “Le Monde” non aveva avvistato. Il numero zero esce in tempi brevi dalle rotative di “Repubblica”. Si chiama “Le Journal”e, scritto in caratteri più piccoli, “du matin”. Prende in prestito molte delle idee migliori dei suoi tre padrini. È francese, ma al tempo stesso è spagnolo, britannico e italiano. Nelle sue pagine, c’è l’Europa in fusione. I capitali ci sono, ma il giornale muore ancor prima di nascere, perché “Le Monde”, diventato il suo quarto azionista, lo sopprime dall’interno.
“Le Monde” non ci aveva messo molto per rendersi conto che poteva far fruttare le sue tipografie stampando il nostro giornale. E aveva visto bene le sinergie che avremmo potuto sviluppare a cinque, e con gli altri giornali che “Les quotidiens associés d’Europe” (questo il nome che la nostra società si era data) avrebbero potuto aggregare. “Le Monde” aveva visto bene tutto ciò ma, orgoglioso, ombroso, senza dubbio seccato di non averlo compreso prima di Eugenio, più che altro ha capito che avrebbe dovuto spartire la sua sovranità, proprio lui, il quotidiano francese di riferimento, con tutti gli altri giornali europei.
E' difficile l’Europa, così difficile che ce ne rendiamo conto anche oggi, molto più di quanto Eugenio ed io avessimo sperimentato in quei giorni nei quali prevalse l’ottusità. L’ambizione europea avrebbe avuto enormemente bisogno di questa rete di giornali-partito ma, sostenitore ante litteram della sovranità, “Le Monde” ha silurato il progetto e ha voluto prenderne in mano le redini da solo. Eugenio alla nostra ultima riunione sbatte la porta e se ne va dicendo: “Non sono un banchiere!”.
No, non lo è. È proprietario di giornali e, vent’anni dopo, la stampa europea cerca ancora al proprio interno sinergie redazionali e industriali, della cui necessità egli si era reso conto con troppo anticipo. Per lui come per me si tratta di un ricordo a tal punto doloroso che non ne parliamo più ma ogni volta che ci incontriamo siamo un po’ come quei liceali che si accompagnano l’uno a casa dell’altro senza mai riuscire a salutarsi e andarsene per i fatti propri. Ogni nostro incontro diventa un dialogo interminabile sul mondo, la vita, la morte, i nostri figli e i Lumi, soprattutto, dei quali parla meravigliosamente bene perché sono ciò in cui crede. Il pranzo si prolunga in una cena. La cena dura fino a notte fonda e la nostra amicizia è così forte che ha permesso altre due avventure con il gruppo “Espresso”.
Carlo Caracciolo era... No. Non posso e non voglio parlare di lui al passato. Carlo è già colpito dal male che se lo porterà via. Gli telefono da Parigi: “Vorrei venire a trovarti”. “Vieni”. Lo trovo pallido e smagrito, nella biblioteca di casa, più affilato che mai. “Carlo, Libération è sull’orlo del fallimento...”, gli dico. “Quel giornale è già morto” risponde. “Ma lo si può resuscitare”, insisto. “No”, ribadisce. “Sì, si può, ma all’unica condizione che a prenderlo in mano sia tu”, lo stuzzico. Silenzio. Poi mi chiede: “Di quanto sono sotto?” “Cinque o sei milioni”. “È tanto”. “Non per te. Per te è il prezzo di un appartamento”.
Sorride, e un attimo dopo aggiunge: “...Ed è molto più divertente!”. Qualche settimana dopo Carlo entra nel capitale [azionario] di “Libé”, mi colloca nella Commissione di sorveglianza, viene di continuo a Parigi, reinventa questo giornale nel corso di discussioni interminabili tra noi, si prepara a reinvestirci parecchi soldi, me lo comunica a quattr’occhi, nella sua casa di campagna. Era estate, ma in autunno Carlo se ne è andato, come dicono gli arabi, a bordo di un vascello senza vele e senza speranza di fare ritorno.
Al contrario di Eugenio, non era principe solo nell’animo. Lo era anche per sangue, per la sua cerchia di artisti e per quel suo modo di andare subito al nocciolo delle cose, senza preoccuparsi mai dei dettagli che lasciava agli altri, per la sua eleganza, anche, a tal punto spontanea da sembrare dimessa.
E poi, prima che se ne andasse, ci fu la terza avventura.
“Le Monde”, con le casse vuote, è in vendita. Claude Perdriel, l’uomo che ha fondato il “Nouvel Observateur” con Jean Daniel, vuole mettersi in gioco e cerca soci. Gli consiglio Carlo De Benedetti, divento loro intermediario e scopro - perché lo conoscevo poco - un uomo della medesima tempra di Eugenio e Carlo, un uomo che crede nella stampa, un imprenditore naturalmente ansioso di ricavare utili dai propri investimenti, ma anche preoccupato per la cosa pubblica, e un europeo, appassionato, convinto e davvero desideroso di avvicinare “Repubblica” e “Le Monde”all’idea... sempre la stessa.
Ma questa avventura non va a buon fine. Altri hanno rilevato “Le Monde”. Senza dubbio non avrei più avuto altre avventure con il gruppo “Espresso” se non gli articoli che i suoi giornali mi chiedono di scrivere, ma di fondatori e di proprietari così non se ne trovano più. Sono rari, sono unici!
Non occorre dire loro che un giornale è il valore aggiunto del suo sguardo sul mondo. A differenza di tanti proprietari di giornali di oggi, loro sanno già che l’unica cosa che conta veramente non è sapere se il giornale sopravvivrà al digitale, ma ciò che i giornali, in formato cartaceo o elettronico, vogliono dire ai loro lettori.
E questo perché nelle loro vene scorre inchiostro, lo sanno d’istinto, come lettori e come cittadini, come Hubert Beuve-Méry che aveva inventato “Le Monde” per ricostruire la Francia a partire dalla sua alta funzione pubblica; come Jean-Jacques Servan-Schreiber che aveva lanciato l’“Express” per farla finita con la guerra d’Algeria e rivalorizzare lo spirito imprenditoriale in Francia; come Jean Daniel che aveva fondato l’ “Observateur” per promuovere la sinistra riformista; come Eugenio stesso, che aveva “l’Espresso” e poi “Repubblica” per accompagnare i cambiamenti della sinistra italiana; come Juan Luis Cebrián che aveva creato “El País” per farne il collettivo intellettuale del ritorno della Spagna alla democrazia.
Proprio perché i grandi partiti europei di sinistra e di destra sono in caduta, squilla più forte che mai l’ora dei giornali, dei giornali-partito, di sinistra, di destra e di altre posizioni, che creeranno e daranno risonanza a nuove correnti di pensiero dalle quali nasceranno forze nuove. Un giornale deve essere un club, intellettuale e politico, nel quale i suoi lettori e i suoi giornalisti si possano riconoscere. È per il fatto di averlo dimenticato che la stampa è data ormai come agonizzante, con i giorni contati. Che errore! Presto, altri uomini di questa tempra, perché c’è un vuoto di mercato e un mercato in questo vuoto. Un vuoto aperto e un mercato gigantesco.
traduzione di Anna Bissanti