A testa bassa dribblano avvocati e giornalisti, per poi tornare, dopo la prima pausa, nell'aula dove si svolge il maxiprocesso alla 'ndrangheta emiliana. Sono due imprenditori. Tra di loro non si conoscono. Eppure i loro destini si sono incrociati e sono stati marchiati, secondo l'accusa della procura antimafia di Bologna, dalle 'ndrine della via Emilia.
Giovanni Vecchi e Augusto Bianchini, il primo reggiano, il secondo modenese, erano due imprenditori di successo. La Bianchini costruzioni e la Save Group avevano spalle robuste. La società di Modena aveva appalti in tutta la regione e aveva raggiunto anche i cantieri Expo. Quella di Reggio Emilia lavorava in tutto il mondo e in Italia poteva contare su committenti del livello del Gruppo Caltagirone.
A un certo punto del loro cammino hanno incontrato gli emissari del capo clan Nicolino Grande Aracri. Per loro è stato l'inizio della fine. Le ingerenze degli uomini della 'ndrina si sono fatte sempre più pressanti. A tal punto che secondo i magistrati le due ditte erano ormai in mano alla 'ndrangheta. Fino agli arresti dell'operazione Aemilia gli imprenditori emiliani erano convinti che in fondo sarebba andato tutto bene. Che la scelta di legarsi a questi personaggi dallo strano accento esotico era quella giusta. Poi, però, tra il 28 gennaio e la metà di luglio, due retate hanno mandato in frantumi le loro certezze. Aziende sequestrate e accuse a vario titolo di concorso esterno e riciclaggio con l'aggravante di aver agevolato la 'ndrangheta.
Save Group è fallita. La Bianchini è finita in mano agli amministratori giudiziari. Epilogo inglorioso, ma prevedibile per chi sceglie come partners i clan.
Nel giorno del maxiprocesso i due imprenditori hanno scelto di esserci. Sguardo basso, attenti a non incrociare quello di cronisti e cittadini presenti, e volti cupi e segnati dall'arresto di quella notte. Ora affronteranno le accuse insieme a quelli che, secondo i pm, erano dei veri soci d'affari mafiosi. Nella stessa aula con lo stato maggiore dell'organizzazione criminale che ha divorato un bel pezzo d'Emilia.
Poi ci sono loro. Le vittime che hanno subito ogni tipo di angheria. Estorsioni, usura, minacce, violenze, incendi, pestaggi. Il lato più visibile del clan è anche quello più feroce. I boss corrompono, pagano, si accordano. Ma quando questo non è possibile o non viene accettato dalla controparte, la bestia sopita si risveglia e attacca la preda. Sono oltre settanta le vittime dirette della 'ndrangheta emiliana. Due sono giornalisti: Sabrina Pignedoli e Gabriele Franzini. La prima cronista di nera e giudiziaria del Resto del Carlino di Reggio Emilia, il secondo direttore di Telereggio. Entrambi si sono costituiti parte civile. A loro fianco l'Ordine dei giornalisti e il sindacato. Tutti gli altri (tranne due), imprenditori soprattutto, hanno per ora rinunciato a far valere i propri diritti. Lo possono ancora fare, non è detto che alla prima udienza del dibattimento vero e proprio non si costituiscano. Ma al momento di loro nemmeno l'ombra.
C'è timore, paura. È normale: la 'ndrangheta spaventa e terrorizza. Anche nella pianura Padana. E quando non intimorisce conviene. Per questo in tanti l'hanno scelta come socia d'affari. Ne sanno qualcosa gli imprenditori sotto processo nel padiglione della Fiera di Bologna trasformato in aula bunker. In questo spiazzo circondato di cemento, stand e alberi, dove tra un mese si svolgerà la famosa manifestazione di motori, il Motor Show. Terra di buon cibo, motori. E 'Ndrangheta. L'Emilia è anche questo.
Mafie12.01.2012
L'allarme è prematuro