Quattro pazienti transgender avevano subito un intervento al Policlinico Umberto I di Roma di riassegnazione di sesso con una tecnica sperimentale che aveva causato infezioni e gravi patologie. Oggi il reato ipotizzato è diventato doloso. L'avvocato: «L'intervento mirava al raggiungimento di obiettivi scientifici e di prestigio personale degli operatori»
Avrebbero compiuto una sperimentazione non autorizzata e senza un completo consenso informato su quattro pazienti transgender, provocando loro infezioni e altre patologie vaginali: per questo motivo il direttore del reparto di Chirurgia plastica e la responsabile del laboratorio di Biotecnologie e Medicina rigenerativa del Policlinico Umberto I di Roma sono stati indagati per lesioni dolose, con ordinanza del Gip di Roma. La loro posizione si è aggravata rispetto all'inchiesta aperta l'anno scorso, e
di cui l'Espresso ha dato conto: il reato ipotizzato questa volta, infatti, non è più di natura colposa, ma i due dottori avrebbero assunto volontariamente e con piena coscienza i rischi a cui hanno esposto le pazienti nelle operazioni di riassegnazione chirurgica del sesso da maschile a femminile. Archiviate invece le accuse per altri 22 tra medici e specializzandi dello stesso ospedale.
Le quattro pazienti sono state operate tra il 2011 e il 2012, con una tecnica mai sperimentata in precedenza nei casi di riassegnazione del sesso "M to F" (Male to Female, ricostruzione dei genitali da uomo a donna). Mentre secondo i protocolli tradizionali l'intervento si effettua in una sola seduta, l'équipe dell'Umberto I decide di tentare una nuova operazione, che si svolge in tre fasi: la prima prevede l'asportazione di tessuto gengivale dalla bocca, con il successivo invio in laboratorio per la coltivazione delle cellule. Entro un mese, si passa una seconda volta in sala operatoria: dopo la demolizione del pene e dei testicoli, le lamine del tessuto boccale vengono applicate a rivestire i canali della neocostruita vagina. Terza fase, dopo un altro mese: il tessuto peniale servirà a ricostruire piccole e grandi labbra, e anzi si nota da parte dei medici che ve ne sarà di più a disposizione, grazie al fatto che per la vagina si è utilizzato il tessuto proveniente dalla mucosa orale.
Le cose però non procedono per il verso giusto, e le quattro pazienti (su un totale di sei operate nello stesso periodo) sviluppano infezioni, cicatrizzazioni della neovagina, stenosi dei tessuti, e non possono avere rapporti sessuali. Partono così le denunce contro il Policlinico, e si viene a scoprire che il team di chirurghi non aveva acquisito le necessarie autorizzazioni per effettuare le sperimentazioni del nuovo metodo, né aveva sufficientemente informato le operande non solo del fatto che erano oggetto di una sperimentazione, ma anche dei rischi a cui andavano incontro. Lo spiega la stessa ordinanza del Gip di Roma: "E' condivisibile l'assunto dei consulenti del Pm – scrive la giudice Giuseppina Guglielmi – secondo cui la tecnica utilizzata fu sperimentale, non era stata preventivamente autorizzata e nessuna delle pazienti ha ricevuto un'adeguata informazione".
Per gli interventi del biennio 2011-2012, in particolare, mancava l'autorizzazione necessaria tutte le volte che si utilizzano tessuti prodotti da ingegneria genetica non testati, equiparati dalle norme europee a dei veri e propri nuovi farmaci: non solo dell'Aifa (agenzia italiana del farmaco), ma anche dell'Istituto superiore di sanità e dello stesso Comitato etico dell'Umberto I. Un protocollo che dava conto della volontà di avviare una sperimentazione, ma – precisa il Gip di Roma – "senza che sia stata fatta menzione dell'esito degli interventi con questa già eseguiti" – viene presentato al Comitato etico del Policlinico solo nel luglio 2013, e la pratica viene in un primo momento sospesa per le "molte perplessità" espresse da uno dei componenti del comitato, la dottoressa Anna Dalle Ore.
L'esperta di bioetica spiega di non essere disposta a autorizzare le operazioni per una serie di motivi: intanto perché si è scelto un tipo di intervento più complesso e che presenta "maggiori rischi per il paziente" rispetto alla tecnica tradizionale; inoltre, non solo non si rilevano dati sulla maggiore efficacia dell'operazione, ma non è chiarito come il nuovo tessuto impiantato, provenendo dalla bocca, potrà mantenere in un contesto diverso "una umidità costante" e se "potrà subire, senza lacerarsi, lo stress di un rapporto sessuale". Infine, essendo la sperimentazione tutta a carico del servizio sanitario nazionale, non ritiene sia soddisfatto un equilibrio tra costi certi e benefici attesi.
Ma non basta, perché a parte l'assenza di autorizzazioni a sperimentare, le pazienti non hanno mai ricevuto adeguata informazione, come spiega il loro difensore, l'avvocata Alessandra Gracis, anche lei transgender: "Il gip di Roma ha ritenuto che il consenso informato non fosse adeguato in quanto non è stato spiegato che quella tecnica, provata fino ad allora solo su pazienti nate biologicamente donne, e mai per una riassegnazione del sesso, fosse del tutto sperimentale. Né sono stati esposti in modo completo tutti i rischi e le patologie a cui le mie assistite sarebbero andate incontro. Nel configurare l'ipotesi di reato è stata accolta la nostra linea, che definisce le lesioni arrecate alle quattro ragazze non semplicemente come colpose ma al contrario come dolose: a nostro parere mirate non alla loro miglior cura possibile, ma al raggiungimento di obiettivi scientifici e di prestigio personale degli operatori".