La strada che attraversa la Val d’Agri è una lingua d’asfalto fiancheggiata da montagne verdi, paesini di pietra grigia, campi coltivati e animali al pascolo. Unici indizi del più grande giacimento di petrolio d’Europa: qualche torre di esplorazione che spunta in mezzo ai faggi; sporadiche zaffate di uova marce, odore caratteristico dell’acido solfidrico contenuto in questo greggio.
Per comprendere che la Basilicata è il Texas d’Italia bisogna raggiungere Viggiano, sede del Centro Olio dell’Eni, la compagnia che controlla la riserva. In mezzo alla valle la scena è occupata da uno spiazzo in cui si alternano tubi d’alluminio e torri che svettano nel cielo. Sulla cima di quella più alta, tinteggiata di bianco e rosso, brucia una fiamma. È il simbolo del petrolio estratto dai 27 pozzi disseminati nella zona, che confluisce qui per essere trattato prima di finire alla raffineria di Taranto.
LUCANIA SAUDITA
Succede da quasi vent’anni, da quando sotto questa terra fertile fu scoperto l’enorme tesoro. Per qualcuno una benedizione, per altri una maledetta sfortuna. Viggiano è il Comune italiano con il maggior numero di pozzi petroliferi. E la Basilicata è la regione che ha sperimentato più di tutte lo sfruttamento degli idrocarburi. Non è dunque un caso che sia stata lei a chiedere il referendum anti-trivelle, portandosi dietro altre nove regioni, e non lo è neppure il fatto che qui sia nato il Coordinamento No Triv, la regia dei movimenti che si battono contro lo sfruttamento di gas e petrolio in giro per lo Stivale, dalle acque della Sicilia all’Adriatico, per arrivare fino alle Prealpi lombarde.
Trivellare o no è il dilemma a cui dovranno rispondere gli elettori la prossima primavera. Se la Corte Costituzionale approverà i sei quesiti referendari, nel 2016 si ripeterà più o meno quanto avvenuto quattro anni fa con il voto su un’altra fonte energetica, quella nucleare. La differenza è che allora le centrali atomiche non erano più in funzione (dal 1987, altro referendum), mentre questa volta di trivelle in giro ce ne sono più di mille. Con relativi lavoratori ed entrate fiscali.
Il voto non mette in dubbio l’operatività dei pozzi attuali. Punta a cancellare le norme che definiscono «strategica» e «urgente» la ricerca e lo sfruttamento di gas e petrolio. A vietare le estrazioni entro 12 miglia dalla costa, limite dentro il quale rientra il progetto oggi forse più contestato, quello di Ombrina Mare, un giacimento di metano davanti ai trabocchi abruzzesi della Costa Teatina e il cui sviluppo, secondo i No Triv, sarebbe una sciagura per il turismo. L’obiettivo generale è però politico. Riguarda il ruolo degli enti locali, declassati dal governo con la legge Sblocca Italia.
I NO TRIV: «VOGLIAMO UNA MORATORIA»
Tagliate fuori dalla grande partita delle concessioni petrolifere, le Regioni hanno insomma risposto. Lanciando per la prima volta nella storia un referendum. Quasi tutte si trovano nel Mezzogiorno e sono governate da uomini del Partito Democratico. Una sfida al premier Matteo Renzi, sottolinea con orgoglio il promotore dell’iniziativa, Piero Lacorazza, presidente del consiglio regionale della Basilicata: «Ha definito “comitatini” quelli che si battono contro le trivellazioni e questo è il risultato. Mi viene da dire: Matteo stai sereno». Ci mette il carico da novanta Francesco Masi, professore di Storia dell’arte in un liceo di Potenza, uno dei coordinatori del movimento No Triv: «Questo è solo il primo passo, il nostro obiettivo è una moratoria sulle trivellazioni».
In Basilicata sanno di cosa parlano. Da questa regione, una delle meno popolose d’Italia, secondo i dati del 2014 pubblicati dall’Unione Petrolifera arriva infatti il 69 per cento del greggio estratto nel Paese e il 16 per cento del gas. Quote che dovrebbero moltiplicarsi se il governo riuscisse a perseguire il suo intento. Con l’aumento delle concessioni in Val d’Agri e l’avvio della produzione di Tempa Rossa, l’altro super giacimento lucano scoperto dalla francese Total, i barili di petrolio estratti giornalmente dovrebbero infatti passare dagli attuali 82 mila a 154 mila. Le conseguenze? I pareri divergono a seconda della fonte a cui ci si rivolge. Meglio allora analizzare la questione punto per punto.
«COL PETROLIO 25 MILA NUOVI POSTI DI LAVORO»
Partiamo dal lavoro, uno dei motivi per cui il governo dice di voler raddoppiare le estrazioni. «Se questo avvenisse», prevede Pietro Cavanna, presidente del settore Idrocarburi e Geotermia dell'Assomineraria (l’associazione che raggruppa le compagnie petrolifere), «si creerebbero 25 mila nuovi posti stabili». Significa più della metà degli attuali. Per capire meglio la questione torniamo a Viggiano. Nel suo ultimo rapporto sulle attività nella regione, l’Eni dice che nel 2014 gas e petrolio hanno dato lavoro a 3.530 persone. Un numero rilevante, soprattutto considerando che questa è una delle regioni italiane con la più alta percentuale di disoccupati.
Davide Bubbico, ricercatore di sociologia economica all’Università di Salerno, dice però che il quadro non è così roseo. In uno studio che verrà pubblicato a novembre per la Cgil, Bubbico fa notare che fra i 3.530 addetti indicati dall’Eni ci sono anche quelli che hanno lavorato poco, magari per qualche manutenzione durata lo spazio di una settimana. Dai suoi calcoli i veri occupati sono meno della metà: 1.500 circa. «Con l’inizio delle estrazioni in Val d’Agri», spiega il sociologo, «l’occupazione nella zona è davvero aumentata. Il problema è che le ricadute sul territorio sono state minime. Sono nate pochissime imprese, non si è creato un polo industriale come avvenuto ad esempio a Ravenna, dove pure le estrazioni di idrocarburi proseguono da decenni. Il risultato è che la maggior parte degli addetti arriva da fuori regione, i locali fanno quasi sempre lavori a basso valore aggiunto. Se a questo uniamo i rischi per l’ambiente e la salute, si capisce perché questa regione è diventata capofila delle proteste».
«DOP E TRIVELLE POSSONO CONVIVERE»
Chi si batte contro le trivelle sostiene che invece di affidarsi agli idrocarburi bisogna puntare su agricoltura e turismo, che offrono posti di lavoro senza mettere a rischio l’ambiente. La pensa così Alfonso Pecoraro Scanio, ex ministro, che ha raccolto 42 mila firme su change.org per supportare il referendum: «È giusto che gli italiani possano scegliere, da una parte ci sono le trivellazioni e dall’altra turismo, terra ed energie rinnovabili».
I pro-triv dicono che invece le cose possono coesistere. Michele Somma, capo di Confindustria Basilicata e socio di due aziende dell’indotto Eni, cita «la Norvegia e la Scozia, grandi produttori di gas e petrolio, ma anche l’Italia, dove le zone in cui si estrae di più sono quelle in cui turismo, agricoltura e allevamento vanno alla grande. Pensiamo a formaggi e salumi di Lombardia ed Emilia, o ai turisti dell’Adriatico». Per dimostrare che le sue attività non rovinano la terra, l’Eni ricorda un fatto: dei nove prodotti Dop e Igp della Basilicata, sei sono stati riconosciuti dopo il 2007, a oltre un decennio dall’inizio delle attività in Val d’Agri, e tra questi c’è anche il Canestrato di Moliterno, un formaggio tipico della vallata.
Un altro beneficio, per i sostenitori delle trivelle, sono le tasse. Secondo Assomineraria, fra royalties e imposte varie le compagnie petrolifere versano ogni anno allo Stato circa 1,6 miliardi di euro. Logico che se dovesse raddoppiare la produzione crescerebbe proporzionalmente il gettito. Ad incassare di più finora è stata proprio la Basilicata e alcuni paesini della Val d’Agri. Come sono stati usati i soldi? Non per incentivare la nascita di un polo industriale petrolifero, né per stimolare altri settori economici. A Viggiano si resta esterrefatti per l’ordine e la pulizia delle strade: marciapiedi nuovi, facciate delle case tinteggiate di recente, vasi di gerani ad abbellire le vie del centro. Il tutto in una delle regioni più povere d’Italia, dove le tasse sul petrolio contribuiscono a finanziare la spesa per università e servizi sanitari.
INQUINAMENTO? PER LE AUTORITA' TUTTO OK
Nicola Varallo, proprietario del Caffè Viggiano, un bar del centro, assicura che «da quando hanno iniziato a trivellare, disoccupati non ce ne sono più. Però nella valle c’è chi dice che l’acqua e l’aria sono inquinate. Io non so se è vero, un po’ di timore ce l’ho, ma che dobbiamo fare?». Dal suo locale esce Giovanni Di Fuccio, titolare di una fattoria con 120 tra capre e pecore, da cui il barista ha appena comprato della ricotta. Paura del petrolio? No, risponde l’allevatore: «Con l’Associazione Regionale Ara abbiamo analizzato gli animali: le bestie stanno bene e a me gli affari vanno meglio di prima perché con l’aumento della produzione petrolifera la gente ha più soldi da spendere».
I dati ufficiali dicono che in Val d’Agri è tutto a posto. Lo assicura l’Arpab (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Basilicata), che monitora fra le altre cose la qualità di aria e acqua. Lo conferma il registro dei tumori: commentando gli ultimi dati pubblici, relativi al 2011, il responsabile Rocco Galasso ha sottolineato che «il dato lucano è perfettamente in linea con quello nazionale». Tuttavia, alcuni sono convinti del contrario. C’è chi crede che la moria di pesci avvenuta ad agosto nel Lago del Pertusillo, un invaso poco distante dal Centro Oli dell’Eni, sia stata causata dall’inquinamento petrolifero e non, come sostengono le autorità sanitarie, dall’ondata di calore che quest’estate ha fatto danni anche in altre zone d’Italia prive di trivelle.
«MA I CONTROLLI SONO CARENTI»
C’è chi non si fida delle centraline per il rilevamento della qualità dell’aria, alcune delle quali sono state installate dall’Eni e in seguito cedute ad Arpab. C’è chi, come Giambattista Mele, un medico locale, è spaventato per il numero di pazienti malati di tumore: «Non dico che sono necessariamente legati alle estrazioni», premette, «ma di certo il sistema di controllo è molto carente. Non conosciamo con precisione i tassi di mortalità precedenti all’inizio delle trivellazioni, né i livelli di inquinamento. Inoltre il registro dei tumori della Basilicata non è accreditato presso l’Airtum (Associazione italiana dei registri tumori), quindi le sue ricerche non sono ufficiali, e pure le analisi dell’Arpab non sono certificate».
C’è paura, per qualcuno, in Val d’Agri. Timore che lo Sblocca Italia, oltre a royalties e lavoro, porterà più inquinamento. Preoccupazioni ingiustificate, forse, ma poco importa. Perché alle porte c’è un referendum e dentro l’urna, si sa, l’ufficialità vale quanto le credenze. I No Triv ci sperano, dalla Puglia alla Liguria. Sempre che la Corte Costituzionale non sgonfi il loro sogno prima del voto.