In Italia mille potenziali terroristi dell'Isis. Ma ora si temono i "lupi solitari"

foto di Augusto Casasoli per l'Espresso
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Gli investigatori danno la caccia ?sul Web ai sostenitori del jihad. ?E non ritengono possibili assalti su larga scala come nella capitale francese. Ma sono preoccupati per il rischio di attacchi nelle cittadine meno sorvegliate

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Il terrore in Italia viene alimentato e coperto da Internet. Perché è sul Web che si svolge l’attività di proselitismo con messaggi e testi di natura jihadistica. E attraverso i social network e le chat i fondamentalisti nel Bresciano entrano in contatto e si scambiano informazioni e messaggi di morte: «Questo non è un gioco ma 25 o 30 anni di carcere se scoprono la nostra vera identità! Che Allah possa amarvi ed aiutarvi ad ucciderli!». Lo scriveva in una chat “coperta” un marocchino, venticinquenne, residente in Lombardia, in regola con il permesso di soggiorno, assunto a tempo indeterminato da una piccola impresa.

Lo hanno scoperto le Digos di Cagliari e Brescia. Ma non è il solo a servirsi della Rete, anche alcuni albanesi, che abitavano in provincia di Brescia, attraverso proclami on line “arruolavano” giovani per mandarli a combattere con l’Is. Nelle chat individuate dagli investigatori i fautori della guerra santa, che esortavano a massacrare gli “infedeli”, scrivevano: «Se incitare le persone a farlo è terrorismo, e se uccidere quelli che uccidono i nostri figli è terrorismo, allora lascia che la storia sia testimone che noi siamo terroristi».

Ci sono un migliaio di potenziali jihadisti nel nostro Paese che da cinque anni sono continuamente controllati e monitorati da investigatori dell’antiterrorismo e dell’intelligence. È un elenco di nomi che è stato compilato dal 2010 a oggi grazie al controllo dei contatti ai siti fondamentalisti provenienti dall’Italia.
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Migliaia di “visite” che si sono trasformate in piste informatiche fino ai computer sparsi nel nostro paese. Completata una prima scrematura per eliminare “curiosi” e visitatori occasionali, l’attenzione si è focalizzata su quei soggetti che mostravano un reale interesse per i sermoni carichi di violenza: persone localizzate in diverse città del Centro e del Nord. Così dalla traccia fornita da Internet sono partite le indagini tradizionali, per ricostruire frequentazioni e pericolosità di questi sostenitori del jihad.

Per alcuni di loro gli accertamenti sono scaturiti in accuse penali riconosciute da diverse procure. Ma le richieste di arresto spesso non sono state accolte dai giudici che non hanno ritenuto esistessero indizi per contestare il reato che punisce “l’arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale o addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale”. Sono rimasti in libertà e per evitare ulteriori pericoli la polizia ha fatto ricorso in diversi casi alle espulsioni, soprattutto verso quei paesi del Nord Africa che collaborano con i nostri investigatori.

L’attività di prevenzione da noi è stata meno complicata per le caratteristiche della comunità musulmana, che conta solo un milione e mezzo di fedeli contro i più di sette milioni che vivono in Francia e Belgio. Anche la natura delle nostre periferie, con una presenza di immigrati provenienti da continenti diversi mentre nelle banlieue la composizione etnica è più compatta, permette di approfondire i controlli. Ma i segnali di pericolo restano forti anche da noi. E arrivano soprattutto da Internet.

I jihadisti navigano in Rete e rendono indecifrabili i loro messaggi attraverso l’uso del programma “Tor” o i software criptati elaborati dagli stessi mujaheddin. Accorgimenti semplici per diffondere documenti che inneggiano agli attentati contro “gli infedeli” ed esaltano le azioni suicide. Gli investigatori hanno scoperto manuali jihadisti che spiegano come usare armi ed esplosivi.
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Ci sono informazioni pratiche e dimostrazioni concrete per maneggiare di tutto, inclusi ordigni chimici o batteriologici. E poi ancora nozioni sulle tecniche di aggressione violente, sulla resistenza agli interrogatori, consigli per i sopralluoghi su obiettivi sensibili.

Gran parte dei sostenitori del jihad in Italia sarebbero dunque individuati: i nostri apparati di intelligence conoscono quasi tutto di questi fanatici, a cominciare dalla formazione terroristica alla quale si ispirano o tentano di collegarsi. I progetti per costituire cellule operative finora sono stati sempre bloccati. E le inchieste hanno evidenziato un’altra differenza rispetto all’Europa centrale: in Italia i fondamentalisti fanno fatica a reperire armi.

Da noi gli arsenali clandestini sono in mano alla criminalità organizzata e le mafie evitano qualunque rapporto con questi soggetti. Anche per questo motivo, secondo gli analisti, la pianificazione di attentati come quelli di Parigi, che prevedono la partecipazione di un gruppo rilevante di complici, non potrebbe passare inosservata agli apparati investigativi e di intelligence italiani. Elementi che spingono gli inquirenti della Procura nazionale antiterrorismo, guidata da Franco Roberti, a ritenere «che sono in pochi a credere ad una eventuale replica a Roma» del massacro del “venerdì 13” nella capitale francese. «È un’ipotesi di rischio» fanno sapere gli inquirenti che coordinano il lavoro degli investigatori, i quali insistono nel sottolineare come la situazione romana è diversa da quella parigina.
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Non tutti i magistrati che si occupano di antiterrorismo nelle procure distrettuali sono dello stesso avviso, tanto che rimarcano il fatto che Roma resta sempre un obiettivo «logico e storico» a prescindere dal Giubileo che si aprirà nelle prossime settimane. Tutti concordano però nel temere soprattutto l’azione del singolo e imprevedibile jihadista, del “lupo solitario” che potrebbe agire senza alcuna organizzazione.

Agli investigatori italiani viene in mente ciò che è accaduto lo scorso febbraio a Nizza, quando la Francia è tornata per la prima volta a tremare dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Il tentato omicidio a Nizza di tre militari di guardia a un palazzo che ospita associazioni ebraiche, accoltellati da Moussa Coulibaly che si è scagliato contro di loro con una lama di 20 centimetri.

Dopo questo assalto la Francia si è resa conto di dovere fronteggiare un «terrorismo fai da te». E sono emerse le crepe dell’intelligence transalpina. La Dgsi (Direzione generale per la sicurezza interna) aveva interrogato Coulibaly solo pochi giorni prima dell’aggressione. Era più di un sospettato: si era imbarcato ad Ajaccio con un volo di sola andata per Istanbul, come tanti candidati alla guerra santa in Siria e Iraq. Una volta atterrato in Turchia, è stato espulso, ma quando è rientrato in Francia ed è stato interrogato, la Dsgi ha ritenuto di non avere sufficienti motivi per fermarlo. Dalle indagini è emerso che il jihadista aveva fatto scalo a Roma in entrambi i viaggi. E a Nizza ha agito contro i militari con il preciso intento di ucciderli. Perché abbia voluto fermarsi a Roma non è ancora stato chiarito da chi indaga.

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Sono i lupi solitari che fanno dunque paura. I singoli episodi che non si possono prevenire. Per questi volontari del terrore non è poi così difficile, come spiegano gli investigatori, procurarsi l’esplosivo. Anzi, realizzare l’esplosivo. «Basta entrare in un negozio di ferramenta con venti euro e uscire con tutti gli elementi necessari per costruire una bomba o una cintura esplosiva», sottolineano gli analisti che si occupano dell’Is. Si chiama perossido di acetone ed è quello utilizzato dai kamikaze degli attentati a Parigi. Si ottiene mescolando acqua ossigenata, acetone e acido solforico. Poi nelle cinture letali si aggiungono bulloni di acciaio per accentuare l’effetto dirompente.

A Milano sei anni fa un ingegnere libico, da anni residente in Italia, si è fatto saltare in aria davanti a una caserma con un ordigno confezionato in casa: il composto è detonato solo in parte, ferendo l’attentatore e un soldato di guardia che ha cercato di fermalo.

E oggi l’attenzione dell’antiterrorismo italiano non è puntata solo sulla capitale. Secondo quanto ha appreso “l’Espresso” da fonti investigative, potrebbero essere a rischio chiese e monumenti storici di cittadine del Centro e del Nord, dove la sorveglianza potrebbe essere minore rispetto a Roma e quindi anche le maglie delle forze dell’ordine risultano più larghe.

C’è un altro fronte caldo per la prevenzione: le carceri, che in tutto il mondo spesso sono diventate le centrali di reclutamento dei fondamentalisti. Nelle ultime settimane sono stati eseguiti controlli, in particolare nelle celle di detenuti jihadisti, e sono state potenziate le attività di intercettazione. Vengono “attenzionati” tutti i soggetti che seguono la preghiera musulmana. Un sistema di monitoraggio nei penitenziari era già partito dopo la strage di Charlie Hebdo: un modo per vigilare sui germogli del radicalismo estremo. La procura nazionale viene informata di ogni movimento o eventuale commento raccolto negli istituti di pena.
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Per il Giubileo la protezione della capitale sarà assicurata da duemila uomini nelle strade, pattuglie anche sugli autobus e controlli elettronici nei principali luoghi a rischio, da San Pietro allo stadio Olimpico, passando per il Colosseo, oltre ad una no-fly zone sull’intera metropoli. È un piano di sicurezza varato da questore e prefetto che sarà attivo durante i dodici mesi dell’Anno Santo della Misericordia.

La città verrà divisa in tre zone: da quella più esterna a quella di “massima sicurezza”. Tutti i servizi di videosorveglianza saranno potenziati. Con un’intensificazione della vigilanza sulle vie di accesso dei trenta milioni di pellegrini attesi in Vaticano ma anche sui luoghi di ritrovo più frequentati, dallo stadio alle arene per i concerti, fino alle piazze della movida. Il questore non esclude di ricorrere a perquisizioni casuali, come deterrente contro potenziali attacchi. Perché gli assalti di Parigi hanno dimostrato che la ferocia religiosa dell’Is è pronta a colpire chiunque, anche nei momenti del divertimento più laico.
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Ai duemila uomini al lavoro nella quotidianità dell’Anno Santo, se ne aggiungeranno altri durante gli eventi di maggior richiamo, come “l’esposizione della salma di Padre Pio o la santificazione di Madre Teresa di Calcutta”. Come spiega il prefetto Franco Gabrielli: «Nessuno nega che il nostro Paese sia un possibile obiettivo. Ma un conto è la minaccia, un conto è che le cose possano poi verificarsi».

A Milano, invece, attenzione massima e misure di sicurezza potenziate ma nessun «riscontro oggettivo di pericoli incombenti». Nonostante l’allerta lanciato dall’intelligence americana, dalla prefettura fanno sapere che «non sono emersi elementi specifici e riscontri oggettivi di pericoli incombenti sul capoluogo lombardo. Tuttavia è stata confermata la massima elevazione del sistema di sicurezza generale e l’innalzamento dell’attenzione sui servizi in corso e il potenziamento delle misure già in atto». Insomma, in tutto il paese le forze dell’ordine stanno facendo di più. Sapendo che non ci sono le stesse condizioni che hanno fatto precipitare la Francia e il Belgio nel terrore, ma che nessuno può sentirsi al riparo dall’offensiva globale dello Stato islamico.

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