Il riscaldamento della Terra non è un’opinione: è un fatto accertato. Le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi, anche nel nostro Paese. Da nord a sud, siamo andati a vedere che cosa sta succedendo. Mentre a Parigi si è aperto il summit COP21 sul futuro del pianeta (Foto di Simone Donati)
C'era una volta l'autunno. Sulle Alpi i ghiacciai erano bianchi di freddo. La nebbia nascondeva alla vista i fiumi e le prime brinate indurivano la pianura. C’era una volta, sì. Un mondo al passato. Perché anche il 2015 conferma che quell’autunno non esiste più. I ghiacciai sono colate nere a rischio d’estinzione. La campagna è un prato verde colorato di fiori appena sbocciati. Germogliano i noccioli a un mese da Natale. E in cima al Muro di Sormano, la faticosa salita del Giro d’Italia che fu, il sole riscalda i visitatori con una temperatura da maniche corte: 22 gradi a oltre millecento metri di quota, ma è il 18 novembre.
Perfino Gastone, focoso maschio di anatra muschiata, non sembra badare più al calendario. La stagione dell’accoppiamento è finita da mesi. Lui e la femmina immobilizzata sotto il suo becco, però, se la spassano con vigore sull’aia della Cascina Sguazzarina, deliziosa fattoria che ospita scolaresche e famiglie a Castel Goffredo, in provincia di Mantova.
Se potesse parlare alla XXI Conferenza sul cambiamento climatico, convocata dalle Nazioni unite domenica 29 novembre a Parigi per obbligare gli Stati a provvedimenti concreti, il baldanzoso papero direbbe sicuramente che per lui il riscaldamento globale va bene così com’è. Eppure se ci fermiamo a guardarlo da vicino, in Italia il paesaggio è già inesorabilmente cambiato.
Solo trent’anni fa, il bisnonno di Gastone avrebbe aspettato aprile. Allora non si andava in “calore” con l’inverno alle porte. Era una contraddizione: sia per le regole di madre natura sia per i centigradi del termometro. Eccoci in viaggio nelle follie di questo ennesimo autunno in corsa per essere tra i più caldi della storia. Più del record 2014, secondo un andamento che dal 1992 registra temperature annuali sempre al di sopra della media del trentennio 1961-1990, scelto come periodo di riferimento. [[ge:rep-locali:espresso:285719760]] DOVE TUTTO È COMINCIATO
Floriano Lenatti, 55 anni, è tra le guide alpine più famose in Valmalenco, in Lombardia. Per diciannove anni ha gestito il rifugio “Marco e Rosa” a 3.609 metri nel massiccio del Bernina. E si ricorda bene quando il caldo ha cominciato a inseguire la neve sui monti: «Nel 1987, gli stessi giorni di luglio durante l’alluvione in Valtellina, abbiamo visto per la prima volta piovere a 3.600 metri. Prima dell’87, quando cambiava il tempo d’estate, non era mai piovuto sul rifugio “Marco e Rosa”. Magari tempestava e poi subito cadeva la neve. Da allora lo zero termico va sempre più in alto, sopra i quattromila. E piove. Quest’anno è piovuto parecchio. È stata un’estate molto calda anche in quota, come quella record del 2003».
L’alluvione in Valtellina e in Valmalenco del 1987 è il primo di una serie di eventi estremi che in Italia annunciano il nuovo corso climatico: lo zero termico per giorni a più di quattromila metri, piogge torrenziali dai ghiacciai giù fino in valle, 53 morti, migliaia di sfollati. Da allora i ghiacciai non sono più guariti. Dopo un decennio di progressiva espansione, riprende proprio in quell’anno la loro rapida ritirata.
GHIACCIO NERO
Anche lo Scerscen inferiore ai piedi del Bernina, dove trent’anni fa si ritrovavano le squadre di sci ad allenarsi in agosto, ha lasciato spazio a sentieri di pietre e roccia. Non lo si vede da quaggiù, nel ripido fondovalle. Lo nasconde una parete oltre i tremila metri completamente senza neve. Saliamo la mattina presto con il fotografo Simone Donati. La meta è un altro ghiacciaio: il Ventina, sul versante opposto, ai piedi del monte Disgrazia. [[ge:rep-locali:espresso:285621098]] La sua espansione massima l’ha raggiunta diciottomila anni fa. Di quel periodo glaciale, il Ventina e gli altri ghiacciai del Disgrazia hanno lasciato un souvenir a pochi chilometri da Monza, il Sasso di Guidino, gigantesco masso erratico che si può ancora ammirare a Besana Brianza. Nel frattempo, il ghiaccio si è ritirato di oltre centotrenta chilometri.
Oggi si arriva comodi in auto a Chiareggio, l’ultimo paese della Valmalenco, dove da autunno a primavera il sole resta basso dietro le montagne. Nonostante l’ombra permanente, l’ora del mattino e i 1.600 metri di quota, il 16 novembre la giornata comincia con 6 gradi. Non c’è un solo cristallo di brina sull’erba. L’acqua scorre abbondante nei torrenti. Il Ventina ci attende a due ore e mezzo di cammino. Ma il cartello è forse precedente al 2014, perché dopo la netta ritirata degli ultimi due anni, serve un’altra mezz’ora tra i massi instabili della morena per mettere i piedi sul ghiaccio.
Il riscaldamento globale e la sua recente accelerazione li si potrebbero misurare in passi. Dal 1910 fino al 1941 sarebbe bastata poco più di un’ora per toccare il ghiacciaio. E chi si è arrampicato fin qui nel 1980 ricorda che trentacinque anni fa ci volevano due ore a piedi, non di più. Una parete bianca e azzurra, spezzata dai seracchi, si affacciava su questa splendida valle che il “Servizio glaciologico lombardo” ha trasformato, con segnali e cartelli, in museo a cielo aperto.
Adesso dall’Alpe Ventina, a circa 1.500 metri, la fronte avanzata del ghiacciaio non si vede più. Si è ritirata dietro un avvallamento. Tra l’erba secca del pianoro spuntano invece le primule. Una rana va a ripararsi sotto un sasso. Controluce sull’acqua del ruscello volano sciami di moscerini, mosche e piccole farfalle. Potrebbe essere primavera.
Non c’è in giro nessuno nel raggio di chilometri. E quassù. a quota 2.500, il Ventina è evaporato. Si è sgonfiato e in trentacinque anni è arretrato di centinaia di metri. Ma più che l’arretramento, colpiscono la perdita di volume su tutta la sua lunghezza e il colore nero della superficie, sotto il millimetrico strato di neve.
All’inizio del pomeriggio, nonostante il sole non abbia mai illuminato il versante precario del sentiero, la temperatura è di molto sopra lo zero. Il termometro appoggiato su un sasso oscilla tra gli 8 e i 9 gradi e dalla pancia sotto il ghiaccio risale il fragore dell’acqua che, pur con l’inverno meteorologico alle porte, continua a scorrere abbondante. Al tramonto torniamo ai 13 gradi del fondovalle.
Ora Floriano Lenatti gestisce d’estate il rifugio “Gerli Porro” ai piedi del ghiacciaio e di questo lento addio è un silenzioso testimone: «Dai rilievi del Servizio glaciologico lombardo, nell’ultimo anno il Ventina si è ritirato di altri 55 metri e abbassato di 5. Un record senza precedenti. Il fatto che ora il ghiacciaio sia nero, significa che è andata via tutta la copertura nevosa. E ogni metro di ghiaccio richiede almeno dieci metri di neve fresca per riformarsi».
GLI ALBERI CONQUISTANO IL BIANCO
Lasciamo la Valmalenco e il Monte Bianco ci accoglie con i 16 gradi di una mattina piena di sole a Courmayeur, 1.224 metri, martedì 17 novembre. Stessa temperatura alla base del ghiacciaio della Brenva. È l’immensa colata candida immortalata in tutte le fotografie della vetta più alta. Anche se candida non è più. Sotto i 3.800 il ghiaccio senza neve è grigio. Più giù, è completamente nero.
I ghiacciai adesso sono due. Dieci anni fa il ripido collegamento con il bacino di alimentazione si è interrotto. E la lingua a fondovalle ai piedi del santuario di Notre-Dame de Guérison è diventata un ghiacciaio fossile. Se le temperature non caleranno, nel giro di qualche decennio scomparirà. Intanto arretra estate dopo estate. Così come si sgonfia, anno dopo anno, il Miage, il più grande ghiacciaio nero del Bianco e di tutte le Alpi. Dal bordo della morena, che segna il suo spessore massimo, il salto verticale ormai è di una trentina di metri. Ma il ghiaccio non si vede. Guardando su, fino in quota, è sepolto da metri di pietre e massi. L’acqua di fusione se ne va verso l’Adriatico. Le rocce restano.
Arretra lo zero termico, avanza la vegetazione. Anche ai bordi dei ghiacciai i larici, un tempo umili piante alte non più di quaranta centimetri, diventano alberi. È la riscossa del bosco. Come a Pian del Tivano, provincia di Como, mille metri di quota oltre l’arrampicata ciclistica del Muro di Sormano, dove da diversi giorni a metà novembre il termometro supera i 20 gradi.
Noccioli e betulle hanno occupato le piste da sci. Gli impianti di risalita fermi da venticinque anni sono reperti archeologici del clima che fu. Tra le capre di un recinto accanto alla biglietteria dello skilift, una gallina ha appena concluso la cova e ora porta a spasso una manciata di pulcini.
Diego Monti, 48 anni, proprietario della baita “La Colma”, si ricorda quando ogni pomeriggio almeno quindici pullman salivano dalla Brianza per portare i bambini alla scuola di sci. «Nel febbraio 2014», racconta, «in una notte ha messo giù 70 centimetri di neve. Poi ha cominciato a piovere e in quattro giorni s’è sciolta tutta. La neve a volte arriva ancora. Quello che manca è il freddo per conservarla». [[ge:rep-locali:espresso:285621099]] GERMOGLI D’INVERNO
Un prato ancora pieno di fiori fuori stagione e oltre il piccolo ponte sul canale, ecco la Cascina Sguazzarina nella campagna di Castel Goffredo. Come tutte le fattorie della pianura Padana, anche questa ha la sua popolazione di mosche e zanzare. Il gelo serviva da regolatore. Più faceva freddo d’inverno, meno larve e parassiti si risvegliavano in primavera.
Ora che la temperatura media è aumentata, gli insetti e non solo il papero Gastone si sentono più arzilli. «Quando avevo dieci anni», ricorda Giacomo Pedretti, 44 anni, agricoltore, «pattinavamo sui canali ghiacciati. Oggi è raro vedere gli alberi bianchi di brina». L’agricoltura deve per forza adattarsi: «In questa zona si arava in autunno, poi pioveva e si lasciava che il gelo rompesse le zolle», spiega Pedretti davanti alla sua fattoria didattica: «Adesso si ara dieci giorni prima della semina, perché se lo facciamo in autunno le zolle si riempiono d’acqua e, senza gelo, restano inzuppate fino in primavera. Questa è un’area ricca d’acqua. Ma in quarant’anni la campagna non si era mai allagata. Negli ultimi tre anni, è successo due volte».
Nel bosco accanto al recinto degli animali, gli alberi si avvicinano all’inverno con nuovi germogli e foglie ancora verdi. Stesso paesaggio alla riserva Wwf “Le Bine”, sul fiume Oglio al confine tra le province di Cremona e Mantova. Il caldo ha portato qui una libellula che prima abitava soltanto nel Sud Italia e in Africa. E l’argine, tra il fiume e la palude, profuma di artemisia appena cresciuta. Anche se oggi, 19 novembre, gli steli dovrebbero essere già secchi da un pezzo.
CALAMARI INTROVABILI
Francesco Cecere, 48 anni, responsabile della riserva, mostra i fiori appena spuntati sui rami di nocciolo. «Uno studio su venticinque anni di temperatura alle Bine», spiega, «dimostra un aumento della media delle massime nei mesi caldi. È cambiata anche la distribuzione delle piogge, ora più concentrata in alcuni periodi. E anche le alluvioni, che fino a vent’anni fa avevano un periodo di ritorno di circa dieci anni: oggi si ripetono con frequenza di due o tre anni intervallate da secche più lunghe. Ma non è detto che le alluvioni dipendano solo dal clima. Spesso si dà colpa al riscaldamento, per far passare gli errori dell’uomo».
È probabilmente il caso di Genova, dove con i 18 gradi del 20 novembre è ancora primavera. Le ruspe lavorano da mesi alla pulizia del torrente Bisagno dopo la serie di tragiche piene. La principale causa che blocca l’acqua però è sempre lì: la ridotta altezza disponibile dove il corso è stato interrato, proprio sotto viale Brigate partigiane, dalla stazione di Brignole alla Foce. Non sembra esistano alternative: o si riapre il torrente o ci si prepara a futuri disastri.
A fine settimana, scende da Nord la prima vera perturbazione. Nel porto di Livorno i pescatori rinforzano gli ormeggi. Sabato 21 novembre, temperatura dell’aria e dell’acqua sono uguali: 18 gradi. Ma le raffiche di vento toccano i cento all’ora. «Sì, sono irriconoscibili anche le stagioni del mare», ammette Michele Vitiello, 40 anni, comandante del peschereccio “Anastasia”: «Il Tirreno è ancora caldo. Orate e calamari che in autunno si avvicinavano alla costa, restano più a lungo in profondità. È cambiata anche la rapidità con cui arriva il brutto tempo. Ora bastano poche ore e ti trovi con una burrasca addosso».
L’ultima tappa riporta a Milano. Piove sull’Autostrada del Sole. Dopo Piacenza l’orizzonte buio è rischiarato dai fulmini di un temporale. Mancano poche ore a domenica 22 novembre e sembra una notte di fine luglio.