Un insegnante elementare di 58 anni viene prelevato dalla spiaggia di un campeggio del Cilento dai vigili, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio e costretto in un letto d'ospedale. Dove viene legato mani e piedi senza motivo. E tenuto sedato, per quasi quattro giorni, senza mangiare, senza bere. Finché muore. 'L'Espresso', con il consenso attivo dei familiari aveva denunciato quell'orrore trasmettendo in streaming l'interminabile e omicida costrizione a cui l'uomo era stato sottoposto. Ora la regista Costanza Quatriglio, da quelle immagini delle videocamere di sorveglianza dell'ospedale, ha dato vita a un film forte e terribile, "87 ore", che dopo la proiezione al Senato è stato messo online sul nostro sito, disponibile per un mese per i nostri abbonati Espresso+ e mandato in onda su Rai Tre
"87 ore" è un racconto che comincia il 31 luglio e finisce il 4 agosto 2009, gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni. Un documentario che attraverso le immagini di nove videocamere ripercorre i giorni e le notti all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, cercando altrove appigli di speranza, nel tentativo di trovare una verità a cui solo il corpo di Francesco può dare risposta.
Giovanni Tizian intervista Costanza Quatriglio
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NOTA DI REGIA
di Costanza Quatriglio
Difficile è stato trovare la chiave per utilizzare le immagini delle videocamere di sorveglianza che hanno filmato ininterrottamente gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni. Non solo per ciò che quelle immagini restituiscono, ma anche perché quel modo di filmare - quello sguardo -, esprime il punto di vista di un sistema a circuito chiuso che allontana chiunque venga ripreso, deprivandolo di ogni possibilità di relazione. E non è tutto: quelle immagini hanno, per loro natura, la pretesa di certificare i fatti, sembrano cioè non avere alcuna potenzialità narrativa, intesa come la capacità che hanno le immagini di evocare, di disvelare, di sottintendere.
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Per questo, a un certo punto, mi è stato chiaro che la narrazione non doveva avere per oggetto il disvelamento dei fatti, ma la portata di quei fatti. Il corpo di Francesco Mastrogiovanni richiedeva una narrazione diversa che avesse una funzione rivelatrice perché potesse - attraverso lo sguardo meccanico della videosorveglianza - farci conoscere la violenza strutturale del meccanismo che ha portato alla sua morte.
Francesco Mastrogiovanni era, come tutti noi, una persona. Il sistema di videosorveglianza ci restituisce una figura bidimensionale priva di ogni soggettività, frutto di quel processo di reificazione originato da un occhio meccanico che disumanizza l’umano. L’atto del guardare ci chiama in causa; man mano che il racconto procede, infatti, comprendiamo che è proprio quello sguardo a isolare l’uomo, come se l’inquadratura e quei legacci a polsi e caviglie fossero la stessa cosa.
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È l’apocalisse dello sguardo, l’intermittenza dell’umano, quello spegnersi e accendersi della luce e quel passare dal giorno alla notte e dalla notte al giorno apparentemente sempre uguale, ma mai identico a se stesso, nello scorrere del tempo. Nella comprensione e nell’elaborazione di quei giorni, infatti, si compie la narrazione: i cinque atti che scandiscono il racconto corrispondono ai cinque giorni di ricovero. Il primo giorno ciascuno di noi è chiamato a osservare Mastrogiovanni attraverso quell’occhio robotico; il secondo giorno facciamo esperienza di quanto quel massimo di visibilità produca il massimo dell’invisibilità, fino a quando, nel quinto e ultimo atto ci accorgiamo che quel corpo non si muove più e l’unica cosa che sappiamo è che non ce ne siamo accorti, persi in quello sguardo che tutto uniforma e cancella.
Fuori dal circuito chiuso, è il medico legale a vedere le lesioni inferte dalle cinghie di contenzione e a capire che quel corpo, nonostante tutto, può ancora parlare. Nel circuito chiuso, invece, l’epilogo naturale è la rimozione: la stanza viene ripulita e tutto torna come prima. È la procedura, il letto sarà pronto per l’accettazione di un nuovo paziente. Il film si ferma qui, sulla rete di un letto ormai spoglio di qualsiasi traccia d’umano. Tutto il resto è compito nostro, di noi che, guardando quella morte, guardiamo anche noi stessi, i nostri limiti, le nostre paure più segrete e ci scopriamo piccoli, infinitamente piccoli, nascosti tra un fotogramma e l’altro di un’immagine poco definita quanto ogni nostra convinzione o certezza.